Sport e coraggio sotto il nazismo

«Dopo la guerra, va' in Germania, ritrova mio figlio e parlagli di quel tempo in cui la guerra non ci divideva e digli che le cose possono essere diverse tra gli uomini su questa terra. Tuo fratello, Luz». Queste parole furono scritte nel luglio 1943 da Luz Long, l'atleta tedesco che alle Olimpiadi di Berlino del 1936 era stato battuto nel salto in lungo da Jesse Owens, l'afroamericano quattro volte medaglia d'oro; per le istituzioni sportive naziste uno scacco enorme, in un'Olimpiade che doveva sancire la supremazia dello sportivo «ariano».

E proprio a Jesse Owens scriveva, firmandosi «fratello», il biondo Luz, che quel giorno a Berlino aveva sportivamente riconosciuto la sua sconfitta e aveva sollevato in alto il braccio dell'avversario; si era così guadagnato la progressiva emarginazione dal mondo dell'atletica tedesca. Inviato in Italia con la Wermarcht, sarebbe morto combattimento in Sicilia il 14 luglio del '43. 

Questa, una fra le più commoventi storie di vita rievocate nella mostra «Lo sport europeo sotto il nazismo. Dai Giochi olimpici di Berlino ai Giochi olimpici di Londra (1936-1948)», fino all'8 dicembre al Museo diffuso della Resistenza a Torino. La mostra è realizzata dal Mémorial de la Shoah di Parigi, che ha come fine «comprendere il passato per illuminare il futuro», ed è promossa dal Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale del Piemonte e dagli assessorati regionali alla Cultura e all’Istruzione con la collaborazione del Museo diffuso della Resistenza, il patrocinio della Comunità ebraica di Torino e il coordinamento organizzativo dell’associazione culturale «RectoVerso». Obiettivo della mostra, che si rivolge particolarmente agli studenti, è quello di raccontare, attraverso filmati, fotografie, oggetti e documenti d’archivio in parte inediti, diversi aspetti della storia dello sport nell’Europa degli anni Trenta e Quaranta, con particolare riferimento al contesto storico del razzismo e dell'antisemitismo, prerogativa dei regimi fascista e nazista.

Sappiamo in quale considerazione fosse tenuto lo sport da entrambi i regimi, che lo utilizzarono come strumento di propaganda e consenso e ne fecero un modello per la gioventù all'insegna del vigore fisico e dello spirito di competizione. «Mussolini, primo sportivo d'Italia» era l'intestazione di tutte le corrispondenze del Coni. E per Hitler «il giovane tedesco del futuro dovrà essere agile e slanciato, vivace come un levriero, coriaceo come il cuoio e duro come l'acciaio di Krupp». Dunque lo sport come disciplina tonificante e come strumento di propaganda. Ogni vittoria sportiva portava lustro alla nazione.

La prima sezione della mostra offre uno sguardo d'insieme sul decennio tragico che va dal 1936, anno delle celebratissime Olimpiadi di Berlino, alle prime Olimpiadi del dopoguerra, a Londra nel 1948; la seconda sezione presenta le vicende di personaggi legati a sette discipline sportive, storie di vita ormai dimenticate, che è bene riportare alla luce e che possono far comprendere alle giovani generazioni quale uso perverso si può fare di qualunque buona attività umana; così grandissimi atleti furono emarginati, se non perseguitati, per la loro appartenenza a una razza diversa da quella ariana. Un esempio in Italia è quello di Leone Jacovacci, campione di boxe mulatto, che per il colore della pelle, benché amato dal pubblico, fu allontanato dall'ambiente sportivo. Le storie di vita servono soprattutto a far comprendere quale fu l'effetto funesto delle leggi razziali, che provocarono separazioni dolorose, traumi, umiliazioni fino all'abisso della deportazione. Non dimentichiamo che nella Germania nazista vivevano molti ebrei che si sentivano essenzialmente tedeschi e che con le leggi razziali furono privati dei diritti civili. Grandi atleti che si erano distinti in vari sport persero i loro primati. Anche gli zingari erano tra le etnie escluse, così al pugile di origine sinti Johann Wilhelm Trollmann, campione nel 1933, famoso per il suo gioco di gambe, venne ritirato il titolo.

Le Olimpiadi, per i gerarchi del Terzo Reich, dovevano essere un fortissimo strumento di propaganda, e lo furono, nonostante le affermazioni degli atleti non ariani, come il su citato Jesse Owens. La resistenza fu merce rara, ma non mancarono le opposizioni, come testimonia il manifesto «Pas un athléte a Berlin» («Neanche un atleta a Berlino!») del Comitato d'azione contro lo svolgimento dei Giochi olimpici a Berlino, sorto in Francia.

I nazisti usarono lo sport anche nei campi d'internamento, trasformandosi in supplizio aggiuntivo, e nei ghetti. Una fotografia testimonia la natura dello "sport" in Grecia, nel ghetto di Salonicco, con un gruppo di ebrei costretti a compiere esercizi fisici fino allo sfinimento.

Quello che più deve far riflettere è il fatto che, mentre lo sport diventava un grande affare mediatico, purtroppo cresceva il consenso della maggioranza degli italiani e dei tedeschi, che accettarono senza ribellarsi le leggi razziali e la loro crudele applicazione. Ricordiamo allora due personaggi, in Italia, fra i pochi, nel mondo dello sport, ad accorgersi del clima di oppressione e ingiustizia che andava instaurandosi: il primo è Gino Soldà, un grande alpinista, campione di sci (nel dopoguerra tra i protagonisti dell'ascesa al K2), che portò in salvo oltre le montagne decine di ebrei in fuga; un altro fulgido esempio è quello di Gino Bartali, campione di ciclismo e di umanità, che contribuì a salvare dalla deportazione, tra la Toscana e l'Umbria, ebrei e deportati politici.

La mostra «Lo sport europeo sotto il nazismo. Dai Giochi olimpici di Berlino ai Giochi olimpici di Londra (1936-1948)» è aperta fino all’8 dicembre al Museo diffuso della Resistenza (corso Valdocco 4/A) a Torino. Informazioni, tel. 011.44.20.780.

 Gianna Montanari

 



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016