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Cibi, verità e leggendeSiamo un po’ tutti preda dei claim. Sono quelle brevi frasi ad effetto che stampate sui prodotti sullo scaffale del supermercato ci fanno allungare la mano per sceglierli. Quelli, e non altri. «Contiene Omega 3», per esempio. Un claim sufficiente per far vendere. Quanti Omega 3 ci siano nel prodotto, quanti rispetto ai prodotti equivalenti di altre marche, se siano aggiunti o se siano presenti comunque in tutti: non sono domande che ci poniamo. «Ma il trucco pubblicitario, ormai, sta nella nostra testa», dice Dario Bressanini, che i cibi della nostra tavola e, prima ancora, del nostro carrello, li smonta e ne smonta le storie, svelandole spesso come leggende o, talvolta, «tradizioni inventate». Bressanini al Festival della scienza di Genova, come ogni anno d’altronde, ha fatto il pienone sempre, in anni in cui il cibo occupa tavole e trasmissioni televisive della nostra società del benessere. Eppure non dà ricette, anche se ama stare, e bene, ai fornelli: è un chimico, insegna all'Università dell'Insubria al dipartimento di Scienze chimiche e ambientali, scrive di «Pentole e provette» sulla rivista «Le Scienze» e tiene il blog «Scienza in cucina», con temi gastronomico-scientifici, biotecnologie agrarie, produzione agricola, percezione del rischio alimentare, chimica in cucina e altro. «Aspiro a cucinare sempre meglio e mi fido molto poco di quello che leggo sui giornali», dice di sé, e a sentirlo ti contagia. A leggerlo, anche, perché i suoi libri mettono in guardia da furbizie e falsità: l’ultimo, appunto, è «Le bugie nel carrello» (Chiarelettere, euro 12.60). La premessa è che sul fronte salute possiamo stare tranquilli: la Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare, con sede a Parma, «valuta se i claim salutistici che il produttore vorrebbe indicare sulla confezione sono supportati da ricerche scientifiche serie e solide». Questo significa che viene valutata con estrema severità ogni «promessa» e se quanto viene scritto corrisponde a verità. Come il caso del selenio aggiunto alle patate: inizialmente i claim che pretendevano di pubblicizzare una maggior protezione per cuore, cervello, prostata eccetera, sono stati bocciati, e la effettiva funzione antiossidante del selenio può essere dichiarata. Ma è Bressanini a spiegarti che la stessa dose di selenio passa attraverso ben otto etti di patata “arricchita” come attraverso due etti di pesce. Il fatto è che la psiche umana non ha segreti per gli addetti del marketing, che spesso fanno leva su parole che sono vere “formule magiche”: come Omega 3 o tè verde, «che si mette dappertutto, pure nei detersivi, perché la sua sola presenza, anche in tracce del tutto trascurabili dal punto di vista biologico, è in grado di spingere qualcuno all’acquisto». E’ per questo che una frase pur veritiera, o un prodotto alla moda e sopravvalutato possono essere smascherati o presi con i dovuti distinguo. La “leggenda” del kamut, per esempio: il gusto è buono, ed è pure biologico. Ma come può essere bio molto buon grano duro della nostra terra, ad un prezzo equo. Il kamut, invece, arriva dal Montana, anzi no: è il marchio, abilmente registrato trent’anni fa nel Montana per brevettare e legare ad un’azienda la produzione del grano orientale khorasan. Si tratta di un grano dal chicco grande, gusto buono, ma dalle normalissime qualità nutrizionali, glutine compreso, con l’aggravante del prezzo alto e del chilometraggio per arrivare alle nostre tavole che non è esattamente pari allo zero. Eppure il kamut va alla grande, e si porta pure dietro la leggenda di arrivare dalla tomba di un faraone: ma quattromila anni per dei semi sono molti, dice Bressanini, e pare che gli egiziani coltivassero farro e orzo. Kamut, però, è proprio un nome egizio: trovato dall’”inventore” del brevetto sfogliando un “dizionario” con i geroglifici: significa «pane». Con tutto questo: «Se vi piace il kamut, acquistatelo», dice Bressanini, «ma sappiate che il sovrapprezzo non è giustificato né dalle caratteristiche nutrizionali, né da quelle sanitarie. Magie del marketing». Capitolo conservanti: quando leggiamo il numero con in testa una «E» scrolliamo la testa, rassegnati, spesso. Eppure già nel Medioevo usavano sotto forma di salnitro i nitriti per conservare le carni e gli insaccati. Di nitrito di sodio e di potassio non possiamo fare a meno, se vogliamo mangiare gli insaccati, e altro, anche se sono sostanze potenzialmente cancerogene: ma ci salvano dal botulino, che può dare conseguenze anche letali. Rassegniamoci e accettiamo di convivere con i vari E251, E252, diffidando di chi richiama (con un bel claim) l’acquirente con la dicitura: non contiene conservanti. Oppure li definisce «naturali», o «zero chimica». E Bressanini il chimico protesta: «Tutto è chimica», sostiene, «e il fatto che un alimento sia o non sia “naturale” non ha niente a che vedere con le sue proprietà salutistiche. Insomma, smettiamo di brandire questo termine con una clava per chiudere i discorsi invece che approfondirli». Il latte, per esempio. Oggetto di grande contestazione anche sul web da parte di fautori di diete particolari: nessun animale adulto beve il latte, si dice, e anche l’uomo non dovrebbe farlo. «La prima risposta che mi viene in mente», commenta Bressanini, «è che gli animali adulti fanno tante altre cose che invece l’uomo fa, per esempio indossare abiti pesanti quando fa freddo, o cuocere il cibo». Che il latte non venga digerito da tutti, è un altro discorso: spesso l’intolleranza vera o presunta al latte porta le persone a interrompere l’accesso a quell’alimento. Ma il 35 per cento degli esseri umani ha la capacità di metabolizzare il lattosio, producendo la lattasi, l’enzima che ne permette la digestione. Si chiama «persistenza della lattasi», che permane dopo l’infanzia, con percentuali molto diverse da popolazione a popolazione. «Nei paesi del Nord», spiega Bressanini, «il consumo di latte fresco è culturalmente il simbolo di un’alimentazione sana e nutriente»: in quei Paesi (Scandinavia, Isole Britanniche…) la persistenza della lattasi ha punte di 89-96 per cento, per scendere al 15 per cento della Sardegna. «Assurdo sostenere che è “innaturale” bere latte da adulti», continua, «visto che molti possono farlo perché producono la lattasi. Siamo stati geneticamente “selezionati” proprio grazie ai vantaggi forniti da questa bevanda, e nel consumarla non facciamo nulla che vada contro la nostra stessa fisiologia». Oltretutto, spiega, ci sono persone, o popolazioni che «pur non producendo lattasi, hanno sviluppato per qualche motivo una microflora intestinale in grado di alleviare i disturbi, quindi il latte è parte integrante della loro dieta giornaliera». Dal latte alle uova: hanno un codice, chi lo legge? Ti dà indicazione su tutto, data, luogo di deposizione, e ti dice anche come vive la gallina che te lo ha offerto: se all’aperto con mangime biologico, all’aperto normalmente, in capannoni, o chiuse in gabbiette grandi come un foglio A4, o poco più, tutto il santo giorno tutta la vita. Fa testo il primo numero della serie di numeri e lettere stampigliate sull’uovo: 0 per le biologiche, e poi 1,2,3. Bressanini assicura che le proprietà nutritive sono le stesse per tutte, e l’unica vera discriminante è la freschezza. Se si è disposti, per pochi centesimi in più, a diffondere la pratica di un allevamento meno crudele, sarà bene evitare le uova con il numero 3. Dipende da noi consumatori indirizzare il consumo in un senso o in un altro, magari verso la liberazione delle galline, ma anche verso la liberazione nostra dai condizionamenti della pubblicità. Un po’ di potere, in fondo, ce l’abbiamo. E smascherando le bugie nel nostro carrello, ma anche i luoghi comuni e le leggende, lo esercitiamo meglio. Daniela Ghia
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