La politica fra le cifre e le parole

L’unica cosa sulla cui validità non si discute in politica sono le cifre. Guardiamo le più recenti. Il voto in Basilicata per il rinnovo del Consiglio regionale: si è recato alle urne solo il 47,62 per cento dei 571.165 aventi diritto. Ha vinto il candidato del Partito democratico Marcello Pittella con il 60 per cento dei suffragi. Il Pd è arrivato al 25,05, con appena lo 0,6 per cento in meno rispetto alle elezioni politiche del febbraio scorso; il tonfo più forte è stato sofferto dal Movimento 5 Stelle, passato dal 24 al 7 per cento, mentre il Pdl (non ancora diviso nelle liste locali fra Forza Italia e Nuovo centrodestra) è sceso in pochi mesi dal 19,4 al 13 per cento.

Altre cifre: le primarie fra gli iscritti al Partito democratico hanno confermato, sia pure fra le presunte irregolarità delle iscrizioni in alcuni centri qua e là per il Paese (in primo luogo a Salerno) il primato di Matteo Renzi con il 46,7 per cento, contro il 38,4 di Cuperlo, il 9,2 di Civati e il 6 di Pittella. L’esito definitivo verrà dai gazebo dell’8 dicembre prossimo, quando potrà andare a votare chiunque lo desideri, e dunque si tratterà di verificare e quantificare il consenso ottenuto fin qui nei sondaggi dal sindaco di Firenze in un’opinione pubblica in cui le troppe divisioni fra i partiti antichi o recenti potrebbero avere aumentato l’indifferenza, o la vera e propria ostilità dei cittadini verso la politica.

 E dunque sarà possibile stimare anche nelle primarie del Pd per l’elezione del nuovo segretario il peso di un astensionismo che in Basilicata ha toccato un vertice mai visto in tutta la storia della Repubblica, insieme al crollo di quella che finora poteva sembrare una minaccia alla democrazia: il “grillismo” condizionato dall’individualismo ideologico spinto all’estremo dalla “rete” mediatica su internet.

Ma di là dalle cifre le cronache recenti hanno dato la sensazione che questa indifferenza o questa ostilità nei confronti della politica trovino sempre più ragioni nei comportamenti dei partiti, nessuno dei quali è indenne d a una vera e propria catastrofe degli antichi gruppi dirigenti, per motivi diversi ma confluenti in un unico rivolo: la fine di un personale politico e soprattutto di un sistema democratico proporzionalista che non sta più in piedi.

Ne è la prova più lampante e numericamente consistente in Parlamento la scissione avvenuta sabato 16 novembre nel Popolo della libertà con il distacco dei “governativi” di Angelino Alfano che hanno dato vita al Nuovo centrodestra non accettando l’ingresso nella rinnovata Forza Italia sotto l’indiscussa leadership di Silvio Berlusconi, anche se tutti, da entrambe le parti, continuano a ripetere il loro affetto, la loro gratitudine, la loro stima verso di lui e il suo carisma, e infine l’attaccamento alle riforme da lui volute, a cominciare da quelle della giustizia e del fisco.

La sessantina fra senatori e deputati del Ncd assicurano, almeno sulla carta, e prima che si verifichi la decadenza del Cavaliere dal Senato, la continuità del governo Letta e della sua maggioranza, che sarà frutto di “meno larghe intese” ma potrebbe, con il passare del tempo (e dopo un esito magari non scoraggiante delle elezioni europee della prossima primavera) riacquistare una fiducia più solida fino al 2015. Almeno questa è la data che il ministro Lupi ha proposto in un’intervista con «La Stampa» come «una scadenza che ci siamo dati, e a cui dobbiamo arrivare raggiungendo gli obiettivi che ci siamo posti».

A parte gli esiti di alcuni “casi” particolarmente delicati, come il voto del 27 novembre sulla decadenza di Berlusconi, e quello più immediato riguardante la Cancellieri, il dilemma più pesante con cui dovrà confrontarsi Enrico Letta sarà quello che gli creerà la scelta di Matteo Renzi come segretario del Pd e futuro candidato di quel partito (che è anche il suo) alla presidenza del Consiglio.

Il sindaco di Firenze ha detto non più tardi di domenica scorsa a «Che tempo che fa» che egli non intende mettere ostacoli al governo anche oltre il 2014, a patto che faccia quello che secondo lui deve fare, e cioè «una nuova legge elettorale, la fine del bicameralismo, l’abolizione delle province, un piano per il lavoro ai giovani, la sburocratizzazione dell’amministrazione pubblica». Cioè, in pratica, qualcosa che non si farà mai, tutto insieme e in così poco tempo.

Beppe Del Colle

 



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