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Pensioni a rischio? No, si rilegga Sturzo
La scorsa settimana, nel corso di una audizione presso la Commissione bicamerale di controllo degli enti previdenziali, il presidente Inps Antonio Mastrapasqua s’è lasciato sfuggire una frase che, nell’obiettiva tensione del dibattito politico italiano e nel bel mezzo della mobilitazione dei sindacati contro la Legge di stabilità, non poteva non suscitare polemiche. Nel concreto, l’alto dirigente aveva fatto riferimento ad una lettera inviata al ministro dell’Economia e al ministro del Lavoro, in cui si osservava che, dopo l’accorpamento dell’Inpdap, il bilancio Inps ne risultava fortemente influenzato e, a fronte di ciò, l’emergere di un disavanzo economico e patrimoniale in capo al consolidato Inps-Inpdap avrebbe potuto offrire all’esterno segnali di «non totale tranquillità». Da ciò l’invito al governo, così come anche al precedente esecutivo Monti, a considerare la questione. L’affermazione, pur riguardando un problema squisitamente tecnico che nel seguito si cercherà di chiarire, e pur essendo stata formulata con il massimo della circospezione, ha toccato un nervo comprensibilmente molto sensibile tanto che nelle ore immediatamente successive sia lo stesso Mastrapasqua sia direttamente il ministro dell’Economia Saccomanni sono stati costretti ad intervenire assicurando che un «problema pensioni» non esiste, cosa che, peraltro, nessuno aveva affermato. Ma tant’è. Un «problema pensioni», inteso come solvibilità dell’Inps rispetto agli impegni assunti indubbiamente non si pone, e tantomeno si porrà in futuro, soprattutto dopo i diversi interventi avviati a partire dalla riforma Dini del 1995 e culminati con la riforma Monti-Fornero del 2012 che hanno fatto del nostro sistema il più rigoroso d’Europa. Il che ovviamente non significa che non vi siano aspetti tecnici da chiarire e soprattutto la necessità da parte di tutti noi di interiorizzare la natura del profondo cambiamento che caratterizzerà nei prossimi decenni il ruolo del sistema previdenziale pubblico. Procedendo con ordine, veniamo al merito della specifica questione sollevata da Mastrapasqua. Lo squilibrio tendenziale del bilancio Inps è quasi completamente imputabile all’accorpamento all’interno dell’Ente delle gestioni ex–Inpdap (Istituto nazionale di previdenza e assistenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica). Quello dell’Inpdap, al di là della logica di razionalizzazione alla base della confluenza nell’Inps, è stato a tutti gli effetti un salvataggio, dove le gestioni attive dell’Inps, e in particolare la gestione separata dei professionisti non iscritti ad albi (il cosiddetto “popolo delle partite Iva”) che a tutt’oggi presenta avanzi patrimoniali e di gestione estremamente rilevanti, sono state nella sostanza chiamate a supportare il pagamento delle pensioni ex Inpdap. Lo squilibrio strutturale della gestione previdenziale dei dipendenti pubblici dipende fondamentalmente da due fattori. Il primo, tipicamente pensionistico, riguarda il fortissimo sbilancio tra i contributi (insufficienti) versati e le pensioni (anche “baby”) erogate in passato con il sistema retributivo. Ciò, nell’ultimo decennio, è stato aggravato dall’aumento dei ritiri dal lavoro e dei pre-pensionamenti in qualche misura incentivati a cui s’è contrapposto un sostanziale blocco del turnover nelle amministrazioni pubbliche che ha fatto salire a dismisura il rapporto tra assistiti (pensionati) e attivi (che versano contributi). Si tratta di un problema che si risolverà col tempo, attraverso l’entrata a pieno regime delle regole della riforma Monti–Fornero e, ovviamente, attraverso la progressiva “uscita” per ovvi motivi demografici dei baby-pensionati statali dalla platea degli assistiti. Un problema che nell’immediato può però creare problemi finanziari, se non altro sul piano contabile. Ed è questo secondo aspetto, di transizione, squisitamente contabile ma non irrilevante, che è stato evocato da Mastrapasqua nella audizione che tanto ha fatto scalpore. Per motivi legati alla riduzione dell’indebitamento delle amministrazioni pubbliche valido ai fini dei parametri europei, lo Stato dal 2007 (ultimo governo Prodi) non versa direttamente all’Inpdap (e ora all’Inps) la quota di contributi da esso dovuti per i dipendenti pubblici, ma utilizza lo strumento delle anticipazioni di bilancio che, nella contabilità dell’ente previdenziale appaiono come debiti verso il Tesoro (appesantendone, almeno contabilmente, le passività). Ciò che l’Inps chiede, in sostanza, è che la ragioneria generale dello Stato studi un meccanismo che, senza far crescere l’indebitamento ai fini europei, provveda ad evitare che i conti dell’Inps siano gravati da debiti che in realtà non sono tali e che potrebbero nuocere alla credibilità finanziaria dell’Istituto. Come si vede, parlare di pericolo per il regolare pagamento delle pensioni è del tutto fuori luogo. Ciò, peraltro, non toglie che questa possa essere un’occasione per una ricognizione a più ampio spettro delle problematiche ancora aperte nel settore. Tra queste, in una prospettiva di breve termine, si può pensare al problema dell’indicizzazione (o meno) ai prezzi (usata recentemente per ottenere quei risparmi immediati che una riforma di ampio respiro garantisce solo a regime). A questo proposito si può comunque osservare che il rapido declino della dinamica inflazionistica, prodotto dall’estrema debolezza della domanda, rende il problema meno rilevante sia sul piano dei disagi dei titolari di pensione non indicizzate, sia su quello del gettito derivante dalla sospensione delle indicizzazioni. Resta la questione degli esodati, stimati in numero estremamente elevato, ma che non può essere risolta applicando ad un numero così grande di persone le regole pre–riforma (almeno, non senza un fattivo contributo finanziario delle imprese), per non allontanarne all’infinito i risultati, e quella delle pensioni cosiddette “d’oro”, alle quali appare del tutto ragionevole l’applicazione di un contributo di solidarietà destinato a rimpinguare i trattamenti minimi. Una decisione che nell’attuale grave momento congiunturale potrebbe avere anche effetti macroeconomici positivi, poiché è indubbio che la propensione a consumare è maggiore in capo alle classi di reddito (e pensione) inferiori. Ma al di là di tutto questo, rimane, come segnalato, una seria questione di lungo periodo legata all’interiorizzazione da parte di tutti i lavoratori, soprattutto i più giovani, ma anche i quarantenni e i cinquantenni, del significato concreto della riforma. Con il nuovo sistema, interamente contributivo, legato al Pil (caduto di quasi il 10 per cento negli ultimi cinque anni) e periodicamente riveduto in base alla crescita dell’aspettativa di vita, si andrà in pensione molto più tardi dei nostri genitori (per i quaranta–cinquantenni) e dei nostri nonni (per i giovani), ma soprattutto si andrà in pensione con un rapporto tra assegno pensionistico e ultima retribuzione (o reddito professionale) molto più basso. Il sistema previdenziale pubblico sarà sempre più, come quello sanitario, in un Paese che continua a invecchiare, destinato a coprire esigenze di base, ma non molto più di quelle. Un “secondo pilastro” pensionistico privato, a capitalizzazione, costruito da ciascuno, sarà una necessità piuttosto che un’opzione. Antonio Abate
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