Kennedy ucciso 50 anni di misteri

Dallas, 22 novembre 1963, sulla città texana splende il sole, le strade sono piene di gente e tappezzate di bandiere per la visita del presidente John F. Kennedy, arrivato in tarda mattinata in volo da Fort Worth, ove ha trascorso la notte. La limousine presidenziale scoperta procede nel centro cittadino tra due ali di folla; una vera sorpresa, poiché da quelle parti Kennedy non era mai andato troppo a genio.

A un certo punto il corteo svolta a destra e poi piega a sinistra, rallentando vistosamente all'imbocco della Elm street. Di lato si staglia l'edificio in cui ha sede un deposito di libri nel quale, da circa un mese lavora, un 24enne di nome Lee H. Oswald. Il giovane, un ex marine emigrato per qualche tempo in Urss, si trova al sesto piano del deposito e imbraccia un Mannlicher-Carcano, fucile usato dall'esercito italiano nell'ultima guerra.

Sono le ore 12,30 quando si sente una detonazione, che qualcuno scambia per un petardo, poi un secondo e un terzo sparo, in rapida sequenza. Kennedy viene dapprima colpito al collo, poi alla testa, la pallottola che si rivela mortale. E' la fine: la limousine sgomma a gran velocità verso l'ospedale Parkland, dove il presidente spirerà mezz'ora dopo.

Questa è, in estrema sintesi, la cronaca dell'assassinio del presidente della Nuova frontiera, una giornata in cui tutti gli americani che oggi hanno almeno sessanta anni ricordano cosa stavano facendo nell'apprendere la tragica notizia. Di quel delitto, mezzo secolo dopo, sappiamo molte cose, ma altrettante ancora ci sfuggono. Fu un complotto o il gesto di un uomo isolato?

Oswald venne arrestato poche ore dopo il crimine e la commissione guidata dal presidente della Corte suprema Earl Warren per far luce sull'accaduto lo considera l'unico responsabile della morte di Kennedy. L'ex marine avrebbe fatto tutto da solo, anche se le traiettorie dei proiettili sparati non paiono pienamente compatibili con le ferite riportate dal presidente. Il filmato di un cineamatore, Abraham Zapruder, accresce ulteriormente i dubbi. Nel cortometraggio si scorge dapprima Kennedy trafitto da dietro, dalla direzione cioè del deposito di libri ove è nascosto Oswald, poi viene colpito in pieno da uno sparo che pare provenire da davanti, mentre il capo, devastato dal proiettile, viene spinto all'indietro. Il busto che il presidente indossava a causa dei suoi cronici malanni alla schiena, gli impedì di cadere in avanti sul pianale dell'auto dopo il primo colpo al collo, sottraendosi così all'angolo di tiro del killer. Costretto invece in posizione eretta, divenne un ottimo bersaglio per lo sparo fatale. Oswald, che avrebbe sicuramente potuto raccontare molte cose, venne a sua volta ucciso due giorni dopo dal titolare di un night-club, Jack Ruby, che disse di aver voluto vendicare Kennedy, ma che potrebbe essere parte dell'eventuale cospirazione per uccidere il presidente e in quel caso l'eliminazione dell'ex marine sarebbe servita a tappare la bocca ad un pericoloso testimone. Dal canto suo, Ruby morirà in carcere tre anni dopo, senza aver mai spiegato il suo gesto.

Di certo Kennedy, amato e stimato da milioni di americani, e nel mondo considerato l'emblema della nuova America, era, specialmente in patria, altrettanto odiato e detestato. La lista dei nemici era davvero lunga. Dalla criminalità organizzata, cui aveva inferto seri colpi tramite suo fratello Robert, ministro della Giustizia, all'estrema destra razzista che lo considerava un traditore della razza bianca per l'impegno a favore dell'eguaglianza dei neri, agli esuli anticastristi che lo accusavano di essere un criptocomunista per aver bloccato i piani di invasione dell'isola, sino a quel complesso militare-industriale (di cui Eisenhower aveva denunciato la pericolosa attitudine bellicista) ostile alla svolta kennediana verso la coesistenza pacifica.

Eppure, nonostante tutto, non è mai venuta fuori una pista concreta, a mostrare in modo inequivocabile l'avvenuto complotto e i suoi possibili mandanti. Forse un giorno ne sapremo di più. Per ora, a cinquant'anni di distanza, su quanto avvenne a Dallas permane un alone di mistero. E' certo però che Kennedy continua ad affascinare, oggi come ieri. A contribuirvi c'è il ricordo di un uomo giovane (46 anni appena) con una moglie bella ed elegante e due figli ancora in tenera età, colpito nel momento migliore della sua vita, quando tutto pareva arridergli.

La sua presidenza era cominciata tre anni prima, l'8 novembre 1960, con una risicata vittoria, 100 mila voti appena, sul repubblicano Richard Nixon. L'insediamento alla Casa Bianca era avvenuto nel gennaio 1961: alla guida dell'America subentrava una nuova generazione, la prima nata nel XX secolo. Una ventata di giovinezza (e per qualcuno anche di inesperienza) dopo il torpore dell'era Eisenhower. Attorno al neopresidente si formò una ristretta cerchia di intellettuali liberal, da Arthur Schlesinger a John Galbraith, quasi a supportare la normale attività del governo nel quale sedevano Dean Rusk come segretario di Stato, Robert Mc Namara alla Difesa e Robert Kennedy alla Giustizia. Il solo vicepresidente Lyndon Johnson, senatore del Texas dai tempi di Roosevelt, pareva apportare alla compagine la necessaria esperienza.

Un debutto difficile tra sfide interne e internazionali, con il mondo diviso in due blocchi, i diritti civili dei neri, il rilancio dell'economia, la corsa verso lo spazio. Da dimenticare soprattutto i primi mesi, col fallito sbarco alla Baia dei Porci di Cuba, operazione ereditata dalla precedente amministrazione repubblicana per rovesciare Castro. Un clamoroso insuccesso di cui Kennedy si assunse però piena responsabilità. Nell'ottobre 1962 venne sfiorata la guerra tra Usa e Urss, dopo che i sovietici avevano installato a Cuba rampe missilistiche in grado di colpire l'America. Il presidente impose il blocco alle navi russe in rotta verso l'Avana, pronto ad usare le armi se queste non si fossero fermate. Esser giunti ad un passo da un conflitto mondiale convinse Kennedy e Kruscev a puntare sulla distensione. Nell'agosto 1963 venne così firmata la messa al bando degli esperimenti nucleari, mentre una linea telefonica diretta iniziò a collegare Casa Bianca e Cremlino, per evitare qualsiasi malinteso che potesse dar luogo, anche involontariamente, ad un'escalation nucleare.

Se sul fronte internazionale le cose stavano migliorando, le difficoltà si accumulavano sul versante interno. Un duro conflitto impegnò la Casa Bianca contro la lobby della siderurgia che voleva alzare i prezzi a suo piacimento; il presidente ebbe la meglio, ma i magnati dell'acciaio lo accusarono di aprire la strada al socialismo. L'America dei primi anni Sessanta era poi scossa dal problema razziale. In alcuni Stati del Sud vigeva la segregazione, in un crescendo di progressiva violenza. Kennedy, dopo qualche indugio iniziale, decise di appoggiare le rivendicazioni della popolazione di colore, mandando l'esercito a proteggere gli studenti neri cui veniva impedito l'ingresso nelle università del Sud. Questo era un po' il quadro di una presidenza che si avviava a concludere il suo primo mandato ed era ormai in vista delle elezioni dell'anno successivo. Il viaggio in Texas serviva proprio a preparare la campagna per la rielezione, ma le pallottole di Dallas cambiarono il corso della storia.

In molti si sono chiesti come sarebbero stati i successivi quattro anni alla Casa Bianca. Impossibile ovviamente rispondere, però si può immaginare che ancor più si sarebbe accresciuta in Kennedy quella capacità di guida e di governo evidenziate nell'ultimo anno di presidenza. Una leadership autorevole, come quella mostrata nella crisi cubana scontrandosi con i generali che volevano bombardare l'isola o nel sostenere i diritti dei neri anche a costo di alienarsi l'establishment bianco del Sud. Un impegno in prima persona per dare risposte credibili ed efficaci alle grandi questioni del nostro tempo: la pace, la dignità umana, la convivenza tra i popoli, guardando, come aveva insegnato papa Giovanni XXIII, alle cose che ci uniscono e non a quelle che ci dividono.

Una visione che Kennedy espose con grande chiarezza, nel giugno 1963, all'università di Washington. «Tanto gli Stati Uniti quanto l'Unione Sovietica, hanno un reciproco interesse a una pace giusta e autentica e a fermare la corsa agli armamenti. Non cancelliamo quindi le nostre divergenze, ma rivolgiamo la nostra attenzione anche agli interessi comuni, e ai mezzi per risolvere quelle divergenze. E se non possiamo mettervi fine ora, possiamo almeno contribuire a rendere sicuro il mondo, nella sua diversità. Poiché, in ultima analisi, il legame che sostanzialmente più ci accomuna è il fatto che tutti abitiamo questo pianeta, tutti respiriamo la medesima aria, tutti ci preoccupiamo del futuro dei nostri figli, e siamo tutti mortali». Un messaggio che rappresenta un po' il suo lascito e che continua a parlare all'umanità di oggi.

Aldo Novellini

 



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