La coscienza e la ragione

 

Corrado Augias, il noto giornalista che su «La Repubblica» risponde quotidianamente a qualunque quesito gli venga posto, il 25 ottobre ha affrontato un problema che – come si suol dire - fa tremare le vene e i polsi, quello della coscienza. Un lettore chiede lumi su un dubbio che non riesce a sciogliere. Pensa che la coscienza non sia sempre affidabile perché ha un fondamento neurobiologico.

E se questo fondamento si altera, di conseguenza viene alterato anche il giudizio della coscienza. Ma allora come può papa Francesco dire che ci segue sempre la propria coscienza non pecca, se questa coscienza è esposta all’errore? E ironicamente conclude: «Se paradossalmente la mia coscienza “malata” mi invita a uccidere la mia fidanzata che mi ha tradito, secondo Francesco non faccio peccato ma, per fortuna, mi mandano in galera».

Il dubbio è reale. E a questo dubbio Augias risponde in modo fumoso, tanto da dare la sensazione di una non-risposta. Cita san Tommaso e confonde la sinderesi con la coscienza; cita anche san Girolamo e non sappiamo perché, non avendo mai questo santo scritto qualcosa di particolare su questo argomento. Cita Lombroso ed è una forzatura, perché Lombroso non parlava di coscienza, ma riteneva di trarre dai lineamenti fisici la prova della predeterminazione della persona al delitto. Cita anche i critici di Lombroso e sembra abbracciarne il pensiero quando dice che «la teoria (di Lombroso) venne rigettata dalle correnti progressiste poichè pareva negare la possibilità di miglioramento o addirittura di “redenzione” operata dalla scuola, dai buoni esempi, da una società più giusta».

E alla fine di tutte le citazioni, ripropone la domanda del lettore, anche se in altro modo: «La vicenda di Priebke ripropone il tema: quando il boia uccideva ostaggi innocenti a quale tipo di coscienza ubbidiva?». Per questo non ci resta che andare alla ricerca di qualcuno che ci aiuti a trovare la risposta.

L’insegnamento della Chiesa -  Avrebbe avuto un aiuto dalla Chiesa se avesse pensato di dare un’occhiata anche solo al compendio del catechismo. La Chiesa distingue tra coscienza psicologica che è l’avvertenza del proprio essere e del proprio agire, e coscienza morale che è «un giudizio della ragione, che, al momento opportuno ingiunge all’uomo di compiere il bene e di evitare il male», perché «percepisce la qualità morale dell’atto da compiere o già compiuto, permettendone di assumerne la responsabilità». Fin qui tutto tranquillo. Poi aggiunge: il giudizio della coscienza è vincolante, ma non è detto che sia infallibile. Di qui tre grandi affermazioni: la persona a) se da una parte deve ubbidire alla propria coscienza, dall’altra deve preoccuparsi di educarla e verificarla continuamente; b) se non pecca soggettivamente quando segue il dettame di una coscienza invincibilmente erronea, ciò non di meno la sua azione resta sempre oggettivamente un male; c) deve adoperarsi per deporre la coscienza invincibilmente erronea.

Riflessione sulla coscienza - In questo breve insegnamento della Chiesa riscontriamo molti elementi che aiutano a capire cosa realmente è la coscienza, e come agisce. La coscienza non è una facoltà conoscitiva a se stante, ma è un atto della ragione. La ragione sviluppa molti tipi di conoscenza: conoscenza speculativa (le scienze), conoscenza pratica (le arti), conoscenza morale (la coscienza). La coscienza è la ragione che si applica alla conoscenza della bontà e malizia delle azioni. E appunto perché è un atto della ragione, porta in sé i pregi e i limiti della ragione. La ragione è fatta per cogliere la verità delle cose e la verità del bene; ma porta in sé dei limiti che nascono dalla ragione stessa (sono le imperfezioni del perfetto), e dalle altre realtà esistenti nell’uomo (i condizionamenti provenienti dalle passioni, dal carattere, dallo stato di salute fisica e psichica, dall’educazione, dalla cultura, dalla propria biografia personale, dal contesto sociale, dai mass media, ecc.). Queste interferenze possono avere effetti non solo negativi, ma anche positivi sul ragionare. Basta pensare al fatto che altro è studiare per passione, altro per gli esami; come pure altro è ragionare quando si è sereni, altro quando si è accecati dall’ira; altro è ragionare sulla donna nella cultura orientale o occidentale.

Per questo possiamo affermare che la coscienza è un tesoro in un vaso fragile, e la persona deve impegnarsi ad educarla con una azione preventiva, mettendola nella condizione di ben ragionare (tutti ragionano, ma non tutti ragionano sempre bene), vigilando costantemente per evitare che venga deformata dai pregiudizi, preconcetti, stati d’animo, ecc, e verificando costantemente i suoi giudizi operativi. Non basta portare a giustificazione della proprie azioni il fatto di «aver agito in coscienza», ma bisogna esaminare costantemente se la  coscienza è stata educata a ben giudicare il bene e il male.

La coscienza di Priebke - Dopo aver fatto queste precisazioni possiamo riprendere la domanda fatta da Augias: con quale coscienza Priebke ha mandato a morte degli innocenti? Lo chiediamo alla ragione e la ragione si attiva e risponde: con una coscienza erronea. Perché erronea? Perché è partito da un principio falso. Quale? Il principio che un militare deve ubbidire senza discutere agli ordini ricevuti. Non è il suo Dna che gli ha imposto di agire in quel modo, ma una precisa scelta ispirata al principio che il bene della patria ha un valore superiore alla vita degli esseri umani, e si costruisce ubbidendo in modo cieco ai comandi. E’ possibile rivedere questo principio? La ragione dice di sì. Ragionando. La ragione capisce che la dignità dell’uomo consiste nell’essere e nel sentirsi sempre responsabile delle sue azioni. E’ l’uomo il dominus del suo agire. Non può attribuire o scaricare su altri questa responsabilità. La sua dignità di persona responsabile non viene meno neppure quando è sotto comando. Per cui l’ubbidienza non consiste nell’applicare ciecamente l’ordine ricevuto, ma nell’applicarlo in modo critico.

Critico significa capire e valutare quanto viene comandato, sia per eseguirlo nel modo migliore, sia per verificarne la bontà e quindi decidere se eseguirlo o rifiutarsi. San Tommaso descrive in modo perfetto il vero atto di obbedienza: Movet seipsum dum movetur, cioè è la persona che sotto la mozione del comando decide di fare quello che gli viene comandato perché lo giudica buono, e se ne assume la responsabilità. Tra l’ordine e l’esecuzione dell’ordine media sempre la ragione della persona, la quale ha il dovere di valutare se quanto è stato ordinato è un bene e quindi da eseguire, o un male e quindi da rifiutare. E’ il caso dei martiri, che di fronte all’ordine di sacrificare agli dei hanno opposto un no, sacrificando la propria vita terrena. Per questo il tanquam ac cadaver ha un valore e un significato ascetico, non è una regola da applicarsi come suona.

Concludendo: Priebke è colpevole dell’uccisione degli innocenti delle Fosse Ardeatine, perché aveva il diritto-dovere di valutare l’ordine ricevuto e di rifiutarlo perché ingiusto. E se si difende dicendo che ha preso la decisione «in coscienza» dobbiamo dirgli che era una coscienza falsa, perché discendeva da un principio erroneo che avrebbe dovuto rivedere. Come pure se si obietta che è stato educato all’obbedienza cieca e al patriottismo esasperato, dobbiamo controbattere dicendo che la sua ragione gli dava la possibilità di valutare la validità di questo principio.

E la base neurobiologica? -  Resta l’interrogativo che nasce dal fatto che - dicono i neurobiologi - la coscienza ha una base neurobiologica, per cui se questa è in qualche modo alterata, anche il giudizio di coscienza viene alterato. E allora è spontaneo chiedersi se è ragionevole affidarsi ad una coscienza che dipende dallo stato di salute della sua parte neurobiologica. L’interrogativo apre un lungo discorso che occorre in qualche modo sintetizzare.

Anzitutto siamo ancora in attesa che gli scienziati spieghino in che modo la parte neurobiologica interviene nel giudizio di coscienza. In secondo luogo siamo in attesa anche di capire qual è la natura di questo influsso: è come l’influsso del codice genetico che interviene in modo deterministico nella vita della persona, o è un influsso conoscibile, controllabile e modificabile? L’esperienza dice che in ogni azione dell’uomo intervengono tutte le componenti dell’uomo, quella fisica, quella psichica, quella spirituale. Ma dice anche che l’uomo è normalmente in grado di riconoscere l’interazione di queste diverse componenti. Per esempio, sa che gli è difficile ragionare quando è lacerato da dolori lancinanti, o è profondamente turbato da passioni che lo accecano, o è condizionato dal suo carattere, dalla sua educazione, dalle abitudini contratte nel tempo, e addirittura dal suo stato fisico. E se non riesce da solo a percepire questi condizionamenti, può farlo con l’aiuto di chi gli vive accanto. E’ uno degli aspetti della socialità.

Con l’altrui aiuto può giungere capire la sua condizione e distinguere ciò quello che è attribuibile alla coscienza e quello che è attribuibile ad altre energie che intervengono nella formulazione dei suoi giudizi. Per cui si asterrà dal formulare giudizi quando è in quelle condizioni (il time out, consigliato dagli psicologi nel conflitti ad alta tensione), o si appoggerà a chi può consigliarlo, e inizierà a lavorare su di sé per giungere a dominare questi condizionamenti, controllarli, o almeno ad esserne consapevole. Dovrà rimediare a questa situazione perché se da una parte non pecca soggettivamente quando segue la coscienza invincibilmente erronea, dall’altra diventa una persona oggettivamente dannosa a se stessa e agli altri. E nel caso che venga a trovarsi nella situazione patologica di non essere in grado di percepire la sua malattia, dovrà intervenire la società a impedirgli di agire come la sua coscienza invincibilmente erronea detta. Per cui la conclusione del lettore è giusta: «Non pecco, ma mi mettono in galera» o in una casa protetta.

In conclusione - Perché tutto questo discorso? Perché la non-risposta potrebbe insinuare nell’animo del lettore l’idea che la coscienza non è un tesoro in un vaso fragile da educare, custodire, verificare, ma è una realtà irrimediabilmente bacata e quindi inaffidabile. Con conseguenze disastrose per la persona perché potrebbe convincersi che i suoi errori son dovuti a fattori interiori deterministici che lo assolvono da ogni responsabilità, anche quella di educarsi (tipica l’espressione: «Sono fatto così»); ma disastrose anche per la società, perché dovrebbe rinunciare ad ogni opera educativa e ad ogni giudizio di condanna di delitti efferati perché compiuti in stato di condizionamenti neurobiologici. E’ quello che alcuni neurologi hanno fatto mettendo in dubbio la validità del giudizio di condanna del pluriomicida di Uthoia.

Giordano Muraro o.p.



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