Augusto, il sublime

Visse 76 anni, e per l’epoca era un’età più che veneranda. L’imperatore Ottaviano Augusto era nato a Roma il 23 settembre del 63 a.C, e nel bimillenario della sua morte (avvenuta a Nola il 19 agosto del 14 d. C) si è aperta alle scuderie del Quirinale una grande mostra a lui dedicata.

Figlio adottivo e pronipote di Cesare, fu un personaggio dotato di un eccezionale carisma e intuito politico, la sua fu una vita costellata di lotte politiche, ideologiche, famigliari e tribali, e di grandi realizzazioni come l’impero, con la sua pax romana, fatta di riforme economiche, legislative, culturali, religiose e statali.

Restaurò la Repubblica e ne divenne il primo oligarca, il tribuno, l’imperatore dal potere assoluto, il pontefice massimo, sommando in sé i più alti poteri dello Stato. Dal senato gli fu conferito il titolo di Augusto, ossia «l’eccelso», il sublime, che era il primo passo della divinizzazione, proclamata difatti dallo stesso senato poco dopo la sua morte.

La mostra intende proporre una panoramica della cultura figurativa augustea e delle profonde trasformazioni che segnarono i cinquant’anni del suo lungo principato. Vita quotidiana a Roma e nelle regioni dell’impero attraverso le arti figurative, marmi, bronzi, terracotte, vetri, monete, gemme, cammei: la forma come sostanza.

Fu un mondo nuovo instaurato dal benefico e implacabile monarca che traghettò le vecchie istituzioni romane verso un regime all’esterno restauratore e paternalista, in realtà ferreo ed autoritario: riforma delle leggi e dello Stato, moralità pubblica e sviluppo grandioso delle arti insomma la Nova aetas, rispecchiante l’età dell’oro, secondo il grande poeta Virgilio, divenutone per scelta o per necessità il principale cantore.

Età nuova che la propaganda imperiale presentò come foriera di pax, pietas, concordia. Mentre per chi occultamente si opponeva, o solo tentava una fronda come Ovidio, c’era l’esilio senza remissione, come quello che toccò all’autore delle «Metamorfosi» relegato fino alla morte a Tomi sul Mar Nero, ossia agli estremi confini del mondo conosciuto.

Stessa sorte d’esilio, ma in un’isoletta del Mediterraneo, fu riservata all’amata figlia Giulia per la sua condotta scandalosa in contrasto con la morale ripristinata dei costumi familiari antichi. Fu la politica degli esili mirati verso chi intralciava la grande macchina del potere. Nell’ombra tramava l’imperatrice Livia Drusilla dell’antica gens Claudia, intelligente e ambiziosa che praticamente instaurò una diarchia durata cinquant’anni e poco alla volta emarginò o fece eliminare gli eredi legittimi per spianare la strada del potere a suo figlio Tiberio. Oggi diremmo: vite, carriere, odi implacabili e veleni di una vera e propria dinasty.

All’apertura della mostra la colossale statua celebrativa di Augusto in marmo pario, proveniente dal teatro di Arles. L’imperatore è nudo dalla cintola in su come un semidio, mentre un drappo regale gli cinge i lombi. Un’immagine solenne che ne esalta il numen, le qualità fisiche e il genius, le qualità intellettuali e morali.

Nel grande salone attiguo inizia la sfilata dei ritratti marmorei di quanti vissero nell’orbita del Principe, al riparo del suo carisma e del suo potere assoluto.

La stessa statua equestre in bronzo di Augusto, ritrovata pochi decenni fa nel Mar Egeo, benché mutila fa da introduzione al corteo. Ecco l’amata figlia Giulia, l’amico Agrippa, l’intellettuale Valerio Flacco, Marcello l’efebico nipote adottato, ecco Virgilio, e Druso Maggiore figlio legittimo e naturalmente Livia e il di lei figlio Tiberio, che gli succederà.

Ma c’è anche un’inquietante sequela di ritratti augustei, provenienti da molte province dell’impero (circa duecento sono quelli oggi sparsi nei musei archeologici di mezzo mondo): è l’immagine veridica dell’imperatore da rimirare e a cui inchinarsi, una sequela nitida e ossessiva. Augusto velato, cinto di lauro, con corona trionfale, a capo scoperto, mai spettinato, spesso con frangia di capelli composti, icona del potere, immagine dominante del culto della personalità, bellezza idealizzata funzionale alla divinizzazione in atto. Una lezione che verrà bene appresa dagli imperatori che seguiranno.

Arte augustea come sintesi universale incentrata sull’idea del ritorno alle origini, e quindi nuova classicità: la bellezza pura, le forme, l’armonia, la glorificazione della tellus.

Opere statuarie che riecheggiano l’arte attica del V secolo a.C come ad esempio il gruppo di Oreste ed Elettra (dal Museo Archeologico di Napoli), o quello di Oreste e Pilade (dal Louvre), o come le due sinuose canefore in bronzo (dagli scavi del Palatino), né vanno dimenticate le due splendide teste di Ulisse e di Sileno di stampo ellenistico provenienti dalla grotta di Tiberio a Sperlonga.

Seguono due statue celebrative, capolavori assoluti: l’Augusto di Prima Porta, dov’era la Villa di Livia (oggi ai Musei Vaticani), un Augusto guerriero con corazza istoriata, sguardo di potere, labbra sottili di calcolo, e sulla capigliatura le tracce del rosso cinabro del colore. La seconda è l’Augusto pontefice massimo (dal Museo di Palazzo Massimo).

Un ritratto togato, il capo velato, l’espressione solenne e ieratica del potere che si fa misericordioso. Ma ci sono, fra i tesori esposti, anche alcune statue originali greche, depredati da templi e messe a decorare case patrizie, come il gruppo delle «Niobidi» che ornavano i giardini degli Horti Sallustiani. 

L’arte augustea segue i principi della riconciliazione e della rinascita, mentre la religione si coniuga con lo splendore dell’arte pittorica, valgano per tutte le immagini votive, come i bronzetti degli dèi provenienti da larari domestici o le lastre di terracotta campane dove in bassorilievo sfila la processione di dèi inferi o la danza di satiri e menadi (tutti provenienti dal Louvre).

Il purismo dei bassorilievi decorativi dal Tempio del Divo Giulio, al Foro Romano, con volute d’acanto e vittorie alate biancheggia con le lastre di prezioso marmo di Luni. Tornano visibili i «bassorilievi Grimani», lo smembrato monumento di Palestrina, una volta proprietà del patrizio veneto e oggi a Vienna. Le scene bucoliche sono l’esaltazione del «tempo nuovo» instaurato da Augusto, la pecora che allatta l’agnello, la cinghialessa col suo cucciolo, la leonessa e i suoi leoncini. E’ l’idea di ricchezza e armonia.

Nella Tellus rinnovata splende l’argento, il più spirituale dei metalli.

Parliamo del «Tesoro di Boscoreale» (proveniente dal Louvre), sepolto dalla lava del Vesuvio, dissepolto da un contadino nell’Ottocento e rimasto intatto perché deposto in una cisterna del vino per salvarlo. Si tratta di un servizio da tavola di centoundici pezzi finemente cesellati e istoriati con scene mitologiche, coppe ornate da ghiande o ramoscelli d’olivo, scodelle, vassoi, piatti da portata, insomma un servizio regale.

Forse la mensa imbandita con questo apparato lussuoso avrebbe potuto nella stagione invernale essere riscaldata da quei due tripodi di bronzo che sono esposti accanto, col braciere per il fuoco  sorretto da enigmatici satiri.

Superfluo  sarebbe infine stilare l’elenco di preziosità dei cammei (dono personale dei membri della famiglia imperiale ad amici e sodali) nonché dei balsamari, delle gemme, monete auree, vetri soffiati multicolori e delle murrine di vetro iridescente che fanno corteggio alla grande statuaria in mostra. Un’arte minore ricca, ostentata, gioiosa.

Augusto e l’impero, fra ideologia e magnificenza, il cerchio che delimita il mondo conosciuto ordinato sotto la legge romana, il confine che separa dal caos, ossia da regioni ignote e da barbari, ossia dall’umanità non redenta dal diritto e dalla ragione.

Luca Desiato



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