Meno diversità fanno crescere la fame

Perdita di diversità vuol dire perdita di bellezza. E se lo dice una biologa molecolare bisogna crederci fino in fondo. «Anche la sequenza del Dna fa sì che mille nucleotidi (che costituiscono la doppia elica del Dna) abbiano quattro elevato alla mille di possibilità di fare cose diverse…», ha detto Maria Luisa Chiusano, dell’Università Federico II di Napoli, ospite del Festival della Scienza che si è svolto di recente a Genova. Partecipava, insieme a Desirée Quagliarotti, ricercatrice presso l'Istituto di studi sulle Società del Mediterraneo, all’incontro su un tema immenso: «La sfida del XXI secolo: nutrire il Pianeta senza danneggiarlo. Riconciliare la conservazione della biodiversità e la sicurezza alimentare».

Il tema del Festival della Scienza era quest’anno «La bellezza», e Chiusano insieme a Quagliarotti hanno incantato parlando della bellezza nella diversità: la bellezza dei paesaggi, degli ecosistemi, dei sistemi colturali che con i loro contrasti e le loro irregolarità hanno da sempre caratterizzato la vita del Pianeta. Alla domanda se davvero l’uomo abbia sfruttato le risorse intaccando la bellezza, la risposta delle due scienziate purtroppo è affermativa, ma lascia spazio alla speranza. «Siamo una quantità inestimabile di forme diverse e funzioni diverse, sia a livello molecolare che cellulare», ha spiegato Maria Luisa Chiusano, «ed è una ricchezza che si snoda fino all’interno della popolazione umana, nel complesso di tutte le forme viventi che, sulla terra, tra loro interagiscono, come sistemi aperti».

Dinanzi a tutto questo «l’uomo non può fare altro che ammirare e cercare di comprendere», ma nel percorso per comprendere è diventato ormai evidente, anche scientificamente, un dato tragico, e cioè che «esiste una correlazione tra erosione della diversità, perdita della bellezza e fame», dice Chiusano. Una spirale perversa ha portato l’uomo a intervenire, spesso per cupidigia ed egoismo, creando un sistema omogeneo da controllare direttamente. Il primo passo, probabilmente, fu la modernizzazione e la diffusione dei sistemi agricoli industriali, a partire dagli Stati Uniti fino ai paesi in via di sviluppo con progetti di miglioramento genetico.

«Con la selezione artificiale delle sementi», ha spiegato Desirée Quagliarotti, «è aumentata la qualità e si sono minimizzati i costi di produzione, ma questo ha comportato una drastica diminuzione di varietà: tre quarti di ciò che è presente nella nostra dieta deriva da dieci colture soltanto. Il territorio è considerato solo come supporto spaziale, tutto orientato verso l’omogeneità: la diversità è considerata ostacolo». Una vera perdita delle diversità «colturale» con conseguente perdita di diversità «culturale», nella distorsione concettuale che solo ciò che è moderno è considerato positivo.

E invece, tra le conseguenze negative, la più terribile è proprio la fame, che nel mondo globalizzato è diventato uno spettro ancor più assurdo, ancora più grave, per una serie di contingenze sviluppatesi in pochi anni, per gran parte delle quali l’uomo ha grandi responsabilità. A voler semplificare: il picco dei prezzi delle derrate agricole nel 2008 e nel 2011, la corsa alle terre dei Paesi poveri con mano d’opera a basso costo, e poi le siccità, come in Russia, e le alluvioni, come in Pakistan, o i tifoni come nelle Filippine, la produzione di biodiesel e bioetanolo ricavati da colture tra cui il mais e l’aumento del consumo di carne nei Paesi emergenti con sfruttamento di parte della produzione per gli allevamenti intensivi, e in non ultima istanza l’aumento dei futures agricoli, con il 70 per cento delle transazioni, quelle che hanno fatto alzare i prezzi alimentari, di mera natura finanziaria…

«Tutto questo, e altro», ribadisce Quagliarotti, «ha portato alla fame un miliardo di persone, superato per la prima volta nel 2009. Il paradosso è che la stessa Fao calcola che la terra sarebbe in grado di sfamare 12 miliardi di persone: ma l’accesso al cibo è impedito o reso difficoltoso a mezza popolazione mondiale». Distruggere la diversità e, quindi, la bellezza, fa scomparire dunque le alternative e limita la nostra capacità di risposta e minaccia la sicurezza alimentare.

L’equilibrio e la bellezza stanno in quel «cubo» di un esperimento raccontato da Quagliarotti: un cubo trasparente posto per 24 ore in mezzo a un prato, e settanta specie di insetti e batteri e altri esseri viventi a popolare immediatamente quello spazio. Lo stesso, posto nel mezzo di una coltura intensiva di mais, è rimasto inesorabilmente privo di vita. E la vita è bellezza. «Il fatto è che la natura sopravvive», ha detto Chiusano, «siamo noi, invece, che non sopravviveremo, se non utilizzeremo il buonsenso: mettendo accanto al buonsenso, la ricerca, e anche l’altruismo».

Come conservare la diversità? Si chiede Quagliarotti. La risposta sta in mano all’uomo che sia agricoltore, ma anche scienziato con buon uso della tecnologia, pronto a combattere la buona battaglia a favore delle diversità culturali e colturali. Il senso ultimo di quella battaglia scaturisce dall’ultimo rapporto della Fao: tre milioni e centomila bambini che muoiono ogni anno di fame.

Daniela Ghia



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