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Due donne si contendono il Cile
Nunca mas, mai più. È il monito che aleggia nel Parque por la Paz di Villa Grimaldi a Santiago, luogo della memoria di un Cile democratico dal presente febbrile e dinamico, che guarda con fiducia al futuro senza dimenticare le ombre di un passato segnato da una dittatura spietata. Visitare questo Paese nell’anno del quarantennale del golpe di Pinochet e in piena campagna elettorale per le elezioni di novembre consente di cogliere lo spaccato di una nazione relativamente giovane (ha celebrato il bicentenario dell’indipendenza nel 2010), ma che ha già vissuto una storia significativa e ne ha fatto tesoro per formare una società civile consapevole e determinata, che lavora alacremente a costruire il proprio avvenire. Esteso dai tropici fino al circolo polare antartico per 4.300 km, con un’ampiezza di 200 fra le Ande e il Pacifico, il territorio cileno presenta un’estrema varietà di climi e ambienti, dalle vette innevate alle spiagge oceaniche, dai laghi ai deserti, e ospita una popolazione di appena diciassette milioni di abitanti, quasi un terzo dei quali concentrati nella capitale Santiago, con ampi spazi per una natura in gran parte incontaminata. Ecosistemi diversissimi, popolati da un’ampia varietà di flora e fauna, dai cactus alle foreste pluviali, dai lama ai pinguini, con una notevole presenza di specie autoctone. È proprio questa ricchezza di ambienti naturali, più che il ridotto patrimonio artistico o le labili tracce del passato incaico, ad attirare un flusso turistico in costante crescita, ma ancora lontano dal raggiungere quei volumi di massa tali da diventare un vero e proprio business, con i conseguenti vantaggi e svantaggi che ciò comporta. La principale attività economica del Paese, purtroppo non scevra da pesanti ricadute ambientali solo in parte diluite dalla vastità del territorio, rimane lo sfruttamento delle risorse minerarie, in particolare del rame, che costituisce circa la metà del totale dell’export e di cui il Cile è uno dei maggiori produttori al mondo, fattore di indubbia valenza strategica. Proprio l’importanza di queste risorse, nonché l’appartenenza geografica al continente americano, determinarono le sorti del Paese alcuni decenni fa. Nel 1970, in un momento di estrema polarizzazione della società cilena, le elezioni videro prevalere l’Unidad Popular, coalizione di sinistra guidata da Salvador Allende. Le sue politiche di stampo marxista, improntate alla redistribuzione del reddito e alla nazionalizzazione delle attività produttive, portarono notevole malcontento fra le classi dominanti e innescarono le preoccupazioni degli Usa. Nel mondo di allora, rigidamente diviso fra il blocco occidentale e quello comunista, Washington non poteva tollerare la presenza di un governo “rosso” in America Latina, il “cortile di casa” per eccellenza. Proprio la nazionalizzazione delle miniere di rame e di altre aziende controllate dagli Stati Uniti provocò l’innalzarsi della tensione fra i due Paesi, mentre le condizioni economiche del Cile attraversavano gravi difficoltà, sia per ragioni interne che per il boicottaggio degli States a livello finanziario ed economico. La situazione di caos crescente favorì l’ascesa politica del generale Augusto Pinochet, uomo forte dell’esercito ritenuto fedele al governo, che invece tradì completamente le aspettative. L’11 settembre 1973, sotto il suo comando e con il tacito consenso dell’amministrazione Nixon, l’esercito diede il via a un violentissimo golpe, arrivando a bombardare con carri armati e aviazione addirittura la Moneda, il palazzo presidenziale dove Allende si era asserragliato con pochi fedelissimi. In poche ore, la preponderanza delle forze golpiste sgominò la resistenza del governo democraticamente eletto, provocando la morte dello stesso Allende. Appena assunti i pieni poteri, la giunta militare guidata da Pinochet iniziò una repressione spietata, incarcerando, torturando e uccidendo centinaia di sostenitori e simpatizzanti del governo rovesciato. Pochi giorni dopo il colpo di Stato, il poeta Pablo Neruda, già gravemente malato, morì di crepacuore. Di umili origini e schierato a sinistra, aveva scalato le gerarchie del Partito comunista cileno fino a candidarsi alle presidenziali nel 1969, per poi farsi da parte a favore di Allende, e nel 1971 aveva ottenuto il Nobel per la Letteratura. Il suo corpo venne vegliato dalla moglie, Matilde Urrutia, insieme agli amici, alla Chascona, la casa che si era fatto costruire a Santiago, nonostante gli sgherri del regime l’avessero già devastata in segno di feroce rivalsa, e i suoi funerali furono la prima occasione in cui la popolazione potè manifestare apertamente il proprio dissenso nei confronti dei golpisti, anche grazie al fatto che la presenza di molti inviati di giornali e televisioni internazionali impedì alla polizia e all’esercito di massacrare i partecipanti. Le immagini delle esequie, proiettate al Museo della memoria e dei diritti umani di Santiago, stringono il cuore e fanno capire molto bene l’angoscia di quei momenti e degli anni successivi, fino alla ripresa delle elezioni democratiche, alla fine degli anni Ottanta. È la stessa sensazione che si prova nel Parque por la Paz citato all’inizio di questo articolo, sorto sulle rovine di Villa Grimaldi, un lussuoso ristorante convertito, durante gli anni del regime, in centro di detenzione e tortura degli oppositori politici. Più di quattromila prigionieri furono incarcerati in condizioni disumane nella struttura, e diverse centinaia vennero uccisi. Al termine degli anni di regime, alcuni dei responsabili hanno cercato di cancellare le tracce di quanto avvenuto, abbattendo la villa e cercando di erigere al suo posto un complesso condominiale. Ma la società civile è intervenuta: associazioni, parenti delle vittime e sopravvissuti sono riusciti, dopo una lunga battaglia legale, a ottenere la preservazione del luogo, trasformandolo in uno spazio di memoria condivisa e testimonianza, con installazioni altamente simboliche e un centro di documentazione che raccoglie foto, filmati e documenti del periodo della dittatura, a ricordo e monito di quanto successo. Un modo per metabolizzare e superare questa pagina oscura senza dimenticarla, e vivere appieno l’attuale democrazia compiuta, che si prepara a nuove e cruciali elezioni, il prossimo 17 novembre. In lizza ci sono ben nove candidati, ma la partita decisiva si gioca fra due donne: Evelin Matthei, candidata dal centro-destra a succedere all’attuale presidente Pinera, clamorosamente crollato nei sondaggi, e Michelle Bachelet, già presidente dal 2006 al 2010, ritornata nell’agone nazionale come leader della coalizione di centro-sinistra dopo una parentesi alle Nazioni Unite. Nella loro contrapposizione rivivono in parte gli echi del golpe di quarant’anni fa, quando i loro genitori, entrambi militari, si ritrovarono su fronti opposti, Bachelet fra i lealisti di Allende, Matthei col dittatore Pinochet. Ma è sulle questioni di oggi, più che sulla memoria di ieri, che si giocherà la sfida. Il Cile è fra i Paesi Ocse col maggior divario fra ricchi e poveri, segno che la crescita economica degli ultimi anni è andata a beneficio solo di una parte della popolazione, e questo comporta aumento della microcriminalità e tensioni sociali diffuse. Le contestazioni studentesche sono una costante negli ultimi anni, e anche la questione indigena continua a rivestire grande rilievo. La manifestazione organizzata a Santiago lo scorso 12 ottobre (anniversario della scoperta dell’America) per rivendicare i diritti delle popolazioni autoctone, in particolare dei mapuche, il gruppo etnico più numeroso, ha visto la partecipazione di un corteo pacifico e multicolore, ma anche una serie di disordini causati dai soliti “antagonisti” incappucciati, evidentemente presenti a tutte le latitudini. In questa situazione, la progressista Bachelet appare più indicata per smorzare i divari economici e i malumori sociali del Paese, e infatti i sondaggi pre-elettorali la stanno premiando. Per questo l’attuale maggioranza cerca di sviare l’elettorato dalle questioni di fondo, cercando di focalizzare l’attenzione su due episodi del 2010. Il primo è il terremoto del 27 febbraio, al quale seguì uno tsunami che provocò più di 500 morti nell’Arcipelago Juan Fernandez: Bachelet, presidente in carica, venne indicata come responsabile ultimo del mancato allarme, anche se tutte le inchieste hanno indicato come le eventuali colpe fossero da individuare nelle istituzioni locali. Nell’agosto dello stesso anno, il crollo di una miniera nel deserto di Atacama imprigionò nel sottosuolo 33 minatori a una profondità di 700 metri. Il loro recupero fu, e rimane, il più grande successo dell’amministrazione Pinera, il quale non a caso in piena campagna elettorale è andato a inaugurare il nuovo Centro visitatori della miniera dedicato all’evento. Colpi bassi e astuzie che rivelano l’asprezza della competizione in atto per guidare il Cile e stabilire quale futuro dare a uno dei Paesi più dinamici nell’attuale contesto mondiale. Riccardo Graziano
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