Le radici della memoria

Gli oggetti collezionati negli anni e stipati in una stanza (libri, foto, reperti e riproduzioni; immagini, miniature, ritratti e manufatti), suscitano ricordi, trasalimenti e ferite: “fantasmi” di un passato prossimo o remoto; personale, familiare o sociale. «Sono io quel bambino biondo e imbronciato (...) vestito di bianco alla marinara (...), mio padre è un po’ più in là (...), la Grande Guerra doveva essere finita da poco».

Le radici della memoria vivono dentro il terreno dell’autobiografia per meglio riuscire a narrarsi. Ed è così che nel suo più recente libro, «La stanza dei fantasmi» (Garzanti, pp. 272, € 18,80), Corrado Stajano, nome nobile del nostro giornalismo e della nostra letteratura civile, inizia a sfogliare il romanzo-saggio della sua vita («un giorno mio padre mi aveva condotto con sé a vedere la bandiera del reggimento. Avrò avuto sei-sette anni, conoscevo la caserma, sterminata, un po’ fuori città, perché qualche volta mi aveva accompagnato là dentro»).

Con un piccolo retroterra memoriale, tra storico e cronologico, giusto per consentirsi di far riaffiorare in superficie i più sommersi fondali dell’anima, l’autore cita il 1909, data del manifesto del Futurismo; il 1917, anno della ritirata di Caporetto vista dai «Taccuini» di Gadda; i tempi della Gorizia contesa tra Austria, Mussolini e Tito e offesa da tutti, ognuno a suo modo; la complicata riscoperta di nonno Paolo, d’origini contadine e poi ricco terriero nella grassa padania, fino all’avvento di un ras fascista nella Cremona agraria e rurale, tra medievale e microborghese, capoluogo di una provincia isolata e assonnata («l’11 aprile 1919, Roberto Farinacci, molisano di Isernia, di famiglia napoletana, figlio di un commissario di Pubblica sicurezza, studente senza studi, aiuto applicato alle Ferrovie, fonda il Fascio di combattimento (...), è un retore della parola reboante, vitalistico, spregiudicato, un uomo della foresta senza cultura e senza princìpi, un opportunista d’epoca»).

Ora, gli oggetti della stanza muovono un vivido mare di ricordi: la domestica braderie, colma di affetti, mozioni del cuore ed emozioni, retaggi di cure e di cultura, genera uno sciabordio di riattualizzazioni, ritorni di eventi non tanto rimossi quanto più o meno automaticamente archiviati. «La memoria è simile persino a un serpente a sonagli (...). Il non poter più sapere dà una triste impotenza. I documenti sono soltanto scheletri che vanno nutriti di carne. Come possono delle carte far riascoltare voci, rivedere gesti, captare sguardi, far capire lo spirito del tempo?».

Infatti, Stajano tornerà di persona in alcuni luoghi del suo passato, non per una qualche sopravvenuta nostalgia, ma per rivedersi in certi luoghi dove era stato anni prima, come nel caso della torre dell’Holland Park, a Londra, la preziosa biblioteca nel quartiere di Kensington, distrutta nel 1940 dalle bombe di Hitler, nella sua ossessione antibritannica. O nel rifugio segreto di Churchill, all’angolo di Saint James Park; o alla National Gallery, dove Graham Sutherland e Henry Moore hanno lasciato una inestinguibile traccia della tragedia bellica anni Quaranta; o nella natia Cremona (latitudine anagrafica più che luogo del cuore), alla luce del dominio del gerarca-padrone della città, quel Roberto Farinacci che per vent’anni fu il grottesco modello di un piccolo duce imperiale.

Lacerante la ricostruzione del golpe dei Colonnelli in Grecia il 21 aprile 1967, che ancora diciassette anni dopo perdura in Stajano, nella rara coincidenza di una Pasqua cattolico-ortodossa, con un senso di dolorosa incredulità. Così come al ricordo del ragazzo terrorista Walter Alasia e della sua criminale incoscienza («mio fratello non è un delinquente, è un assassino», si ostina a dire Oscar, il maggiore, pietrificato dai fatti).

Ma prima che il libro finisca, ecco un imponente e sanguigno capitolo sulla Sicilia, terra del padre, ove Stajano cala a ritrovare un’isola amara, amata e disamata, che da antica e lunga proprietà di mani straniere è trascorsa a complice e allibito terreno di gioco di “gattopardi” e di mafiosi («Palermo [...] sembra la Orano della “Peste” raccontata da Albert Camus»). La Sicilia di Lucio Piccolo (Tomasi di Lampedusa era suo cugino, non il contrario, affermava l’invidioso ancorché grande poeta), e di Sciascia («il maestro saputo»); di Falcone e di Borsellino, di Mattarella e Dalla Chiesa, di Chinnici e Cassarà, e tanti consimili «morti ammazzati», mentre altri sedevano imperturbati a Roma in occhiute partite di governo.

Esperienze rivissute, confluite ora in una fervida serie di analisi critiche dall’andamento narrativo, di nodi e momenti di realtà italiane del Novecento, intrecciate a passi e passaggi di vita propria. Ma, soprattutto, precisi e sferzanti giudizi etico-storici sulla perseverante catena di disastri ai quali improvvisati e affaristici attori del potere ci sottopongono a stretto giro d’anni: una parodica sceneggiatura della democrazia, recitata da giocolieri e giullari. Stajano alza la voce, come gli è capitato e ancora e sempre gli capita di fare, contro un banditismo politico svergognato per cui nulla è mai perduto fuorché l’onore.

Gli oggetti della stanza, sottratti alla morbida nebbia dell’oblio, da imminenti, possibili fantasmi, sono diventati d’un tratto i contusivi strumenti che dalla memoria si sono trasferiti al presente delle idee e dei concetti. Se è vero che idoli in sé precari, ma poi, fuori e attorno a sé, risoluti, ci controllano e ci determinano, è anche vero che la più parte di noi li adora, liberi di poterne diventare servi. Non popolo ma pubblico, tanto pasciuto quanto mendico accattone di favori.

Claudio Toscani



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