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Governati da contabiliUn recente articolo pubblicato su questo settimanale, a firma di Antonio Abate, portava il titolo: «Per fortuna c’è la mano dell’Europa» e il relativo occhiello specificava: «Le garanzie sulla tenuta del Paese sono, in varie forme, affidate alla guida finanziaria dell’Unione europea». La mia prima reazione è stata: il titolista, come talvolta avviene, avrà travisato il contenuto dell’articolo, facendo, di un passaggio particolare, magari poco significativo, un titolo ad effetto. Invece no; l’articolo in parola inizia con parole di plauso nei confronti del raggiungimento e mantenimento della stabilità finanziaria, in quanto «[nelle vicende di fine settembre], i mercati […] hanno reagito in modo tutto sommato composto, con lievi flessioni delle quotazioni di Borsa e un contenuto allargamento dello spread dei titolo italiani rispetto ai bund tedeschi, dell’ordine di 50 punti», richiamando, quale termine di confronto, lo stato disastroso della fine del 2011, quando l’Italia ebbe a subire un attacco speculativo notevole sui mercati finanziari. Così scrivendo, l’articolista riconosce un ruolo fondamentale ai mercati finanziari quali corretti valutatori della bontà di un sistema economico; quali luogo in cui si realizza e si manifesta il miracolo dell’ipotesi della concorrenza perfetta (secondo i modelli neoclassici), per cui un’infinità di micro operatori, che agiscono pensando al proprio tornaconto, generano d’incanto un comportamento aggregato corretto e virtuoso per il benessere comune (quasi riproponendo l’aforisma vox populi, vox Dei). E questo quando invece è risaputo che una decina fra banche e fondi d’investimento controllano circa i due terzi dei flussi finanziari globali, potendo anche contare su interessenze con tre società di rating che ne amplificano l’influenza. Questi operatori si trovano al vertice della piramide dei flussi finanziari, alla cui base vi è una miriade di piccoli operatori e risparmiatori che agiscono per imitazione e in maniera del tutto passiva, e possono sfiduciare (o sostenere) i governi di qualunque Paese paesi che attui politiche economiche a loro sgradite (o gradite). Ma l’articolo non si ferma all’osservazione del contenuto aumento dello spread rispetto ai bund tedeschi, non ricordando peraltro che il governo Dini non fu travolto dal fatto che il predetto spread fosse arrivato, nel 1995, a 675 punti base. Si lancia in un osanna perché «l’attuale situazione economica e finanziaria del nostro Paese e le prospettive per i prossimi mesi appaiono oggi nettamente migliori rispetto ai giorni drammatici di fine 2011, quando era chiaro che l’Italia si sarebbe avviata verso una lunga recessione anche a fronte delle politiche di “lacrime e sangue” poste in essere da un governo tecnico nato per poter rimettere in linea i conti dello Stato, dopo il conclamato fallimento delle forze politiche. Oggi, proprio grazie al tanto vituperato governo Monti, il risanamento è stato operato, il nostro Paese dispone della più rigorosa normativa pensionistica d’Europa e, se non fosse per la drammatica eredità degli oltre duemila miliardi di euro di debito, […] i nostri conti sarebbero addirittura migliori di quello tedeschi». C’è veramente da essere contenti? Al contrario, c’è da essere ben poco contenti, perché quali effetti hanno avuto sul livello del benessere delle famiglie italiane; sui livelli di occupazione delle forze di lavoro; sulla diffusione degli stati di povertà, in una parola, sul bene comune, «la più rigorosa normativa pensionistica d’Europa»; «le politiche di “lacrime e sangue” poste in essere da un governo tecnico nato per rimettere in linea i conti dello Stato»? Qui si ripropone la questione, più volte da me richiamata su questo settimanale, fra obiettivi finali e obiettivi intermedi di politica economica. I primi sono quelli che contano perché concorrono a determinare il bene comune; i secondi non contano di per sé, ma possono essere rilevanti in quanto costituiscono un passaggio intermedio necessario per chi vuole giungere a un dato obiettivo finale. È tragico se prevale l’errore di prospettiva per cui, per perseguire un obiettivo intermedio (la stabilità finanziaria), si fanno scelte che allontanano da quello finale (il bene comune). Un classico esempio di obiettivi intermedi che possono bloccare la realizzazione degli obiettivi finali sono i parametri di Maastricht, fra i quali i celebri rapporti debito pubblico/Pil e deficit pubblico/Pil; rapporti senza fondamento scientifico, se non altro perché assumono la perfetta equivalenza fra un euro e un altro euro, comunque spesi, comunque incassati. Che sia per finanziare missioni di pace all’estero o per finanziare le prestazioni della cassa integrazione in deroga o per finanziare spese sanitarie o spese scolastiche o per acquistare aeromobili da guerra; che siano imposte dirette progressive o imposte indirette regressive, non fa differenza. Sono indicatori stupidi in quanto di tipo meramente quantitativo, senza alcuna considerazione d’ordine qualitativo. Se si parla di «parametri virtuosi» di Maastricht, è facile che nascano equivoci tremendi: se questi obiettivi intermedi sono realizzati, pare che tutto sia a posto, e ci si dimentica di verificare che essi non siano di ostacolo al raggiungimento di obiettivi finali, cioè il bene comune della nazione in campo economico, che può essere definito come il livello di benessere che deriva dall’avere elevata disponibilità di beni equamente distribuiti, che viene di fatto a realizzarsi in situazioni di piena occupazione del lavoro, in presenza anche di politiche di welfare che incidano in senso egualitario in un contesto in cui i mercati dei fattori e dei beni non realizzino spontaneamente situazioni di equa distribuzione dell’accesso ai beni di consumo, operando peraltro in un’economia equilibrata fra gli impieghi in termini di consumo (benessere immediato) e impieghi in termini di investimenti che ne garantiscano la sostenibilità. Sacrificare quest’obiettivo agli obiettivi intermedi di Maastricht è chiaramente confondere e scambiare obiettivi intermedi con obiettivi finali. Che si prendano decisioni di governo dell’economia perché ce «le chiedono i mercati finanziari» è altamente opinabile; che sia perché ce le chiede l’Unione europea è più accettabile, anche se la capacità di quest’ultima di saper ben governare la realtà economica, alla luce del bene comune della Comunità europea, è facilmente contestabile. L’Unione europea chiede all’Italia di ridurre deficit e debito pubblico, i quali non sono obiettivi finali di politica economica e la cui capacità d’influire positivamente su obiettivi finali, quali lo sviluppo economico e il bene comune della nostra comunità e di quella europea, non è affatto sicura. L’Europa ci chiede rigorose azioni volte a facilitare la stabilità finanziaria del settore pubblico, ma ci chiede anche il ridimensionamento del welfare state quale via attraverso la quale si riaprirebbe la via per lo sviluppo economico del Paese. Ora, il welfare state è un potente strumento che può operare a favore di un migliore egualitarismo, ma anche, se impostato con approccio basato sul principio della solidarietà attiva, a favore della creazione di eguaglianza delle opportunità. Inoltre opera quale strumento di politica economica in quanto crea coesione sociale, facilita l’acquisizione di capitale umano (attraverso l’ampliamento delle possibilità di accesso all’istruzione e alla formazione professionale), premessa questa anche, attraverso lo sviluppo della ricerca, della creazione di capitale reale di elevata qualità; l’uno e l’altro fattori indispensabili per creare un sistema economico basato sulla qualità dei prodotti. Il dramma attuale del governo dell’Europa è che non esiste una strategia concordata; che non c’è comunanza sugli obiettivi di fondo civili, sociali ed economici. Non basta creare una moneta comune per creare un’unità politica; anzi, se la moneta comune portasse ad accentuare gli squilibri civili, sociali ed economici, si creerebbero barriere al raggiungimento dell’unità politica e non la strada spianata verso quest’obiettivo. Ma è proprio quello che si sta oggi rischiando, avendo creato una moneta comune alla luce dell’obiettivo primario della stabilità dei prezzi e dei flussi finanziari e subordinando a questo tutti gli altri obiettivi di politica economica, crescita e piena occupazione in primis. V’è chi lamenta, con ragione, il basso livello qualitativo del governo dell’economia europea, specie se confrontato con l’elevato profilo dei tempi dell’inizio del processo d’integrazione europea che prese l’avvio dopo la Seconda guerra mondiale. Un progetto che aveva al suo vertice la creazione dell’unità politica fra i Paesi europei che per secoli avevano vissuto periodi di conflitti ricorrenti, che talvolta avevano trascinato nel conflitto anche nazioni extra-europee. Progetto che aveva generato anche profonde modificazioni di natura economica, quali la creazione di un mercato unico, con l’eliminazione delle barriere doganali e la creazione della mobilità intra-europea del lavoro e dei capitali. In questo filone sì è inserita anche la costituzione dell’Unione economica e monetaria, con la creazione di una moneta comune. Però, mentre nella fase di fondazione del Progetto europeo gli uomini politici che la guidarono dimostrarono di avere ben chiaro il concetto del bene comune dell’Europa, nella fase di lancio del progetto monetario hanno prevalso persone che hanno anteposto l’obiettivo intermedio della stabilità monetaria e finanziaria all’obiettivo finale della realizzazione del bene comune. Alle persone che mezzo secolo fa operavano da “politici” rivolti alla realizzazione del bene comune, si sostituirono, e tuttora continuano a prevalere (li chiamano “tecnici”), persone che sono poco più che semplici contabili. Purtroppo non siamo governati da leader politici, ma da contabili. Daniele Ciravegna
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