L'obiettivo intermedio resta pur sempre utile

Accolgo con piacere la sollecitazione del collega prof. Ciravegna che, muovendo dalla sua nota distinzione tra obiettivi finali e obiettivi intermedi dell’azione di politica economica, pone l’accento sul rapporto, oggetto di ampio dibattito, tra i parametri di stabilità finanziaria concordati in sede europea e il perseguimento del benessere comune, che giustamente dovrebbe essere l’autentico obiettivo “finale” dell’intervento pubblico in economia.

Ciò premesso, mi permetto di sottolineare come in tale tesi, e in particolare nella risposta al mio articolo pubblicato sul n. 34 de «il nostro tempo», venga sottovalutato lo stato di debolezza di una nazione caratterizzata da un elevatissimo debito pubblico, una parte consistente del quale detenuto da soggetti non residenti. Debolezza che diviene drammatica se il policy-maker non appare in grado, per ignavia o pavidità, di ridurre l’inefficienza della pubblica amministrazione e favorire la dinamicità delle imprese. E se, non dimentichiamo, la stessa tanto osannata “società civile” si arrocca nella difesa di posizioni di rendita particolari, di privilegi di ceto, gruppo o professione che bloccano qualsiasi sforzo di riforma complessiva.

Si tende spesso, infatti, a contrapporre le virtù della società civile ai vizi del pubblico, dimenticando quanta parte di tali vizi sono strettamente legati alla miopia di una congerie di gruppi di interesse attenti esclusivamente alla protezione del proprio sonderweg. Non pensiamo solo alle corporazioni a tutti note, ma anche ai presidenti di Provincia che scendono in trincea per difendere il loro ente, ai cittadini che scendono in piazza contro l’accorpamento dei Comuni, il riordino degli ospedali, la chiusura del tribunale locale: hanno tutti ragione nel difendere le loro sacrosante ragioni “particolari”?

La debolezza dell’azione di governo si traduce in uno scarso potere contrattuale del prenditore pubblico sui mercati finanziari, e quindi in un elevato costo del finanziamento del debito sovrano della Repubblica. In quest’ambito, poco importa che i mercati finanziari interpretino più o meno correttamente, come sottolineato dal collega, la situazione effettiva di un Paese e la sua affidabilità come debitore. Poco importa che l’andamento del mercato sia interpretabile con la teoria microeconomica neoclassica o sia, come nei modelli d’oligopolio, il prodotto dell’azione deliberata di un numero ristretto di pochi grandi operatori, o addirittura il risultato dell’attività di qualche gruppo di potere occulto, come sostengono le cosiddette “teorie del complotto”. Ciò che conta davvero è che un Paese a tale mercato deve comunque rivolgersi per finanziare il proprio debito, a meno di non ritornare a stampare moneta ad libitum, creare iperinflazione e trasferire, così sì in modo occulto, risorse della comunità attraverso la manipolazione del potere d’acquisto della moneta e il valore reale dei crediti finanziari delle famiglie. E, naturalmente, isolarsi dal resto del mondo.

Non credo che il prof. Ciravegna consideri lo spread privo di importanza, come sostenuto, purtroppo, molto autorevolmente (diciamo così) in ambito politico. Può essere impossibile lavorare nella direzione del bene comune quando il mercato (stupido, guidato da pochi, manipolato dalle streghe, non importa) prezza il tuo rischio di insolvenza a livelli insostenibili, e non si deve dimenticare che ogni anno il fisco italiano deve raccogliere quasi 90 miliardi di euro di imposte per pagare gli interessi sul debito. Se si riesce a ridurre tale importo attraverso una discesa dei tassi, le conseguenze non potranno che essere positive. La discesa dei tassi è possibile se il mercato crede nell’azione di risanamento, e se si lavora sulla pubblica amministrazione per renderla migliore, magari anche domandandosi cosa è core e cosa non lo è per l’intervento pubblico e ridefinendone attentamente (e cautamente) il perimetro, si sommeranno virtuosamente i risultati della maggiore fiducia (tassi più bassi) e della maggiore efficienza (servizi pubblici più adeguati alle esigenze di chi ha davvero bisogno).

L’obiettivo di una pubblica amministrazione più efficiente sarà anche un obiettivo intermedio, ma ritengo che dal suo raggiungimento il benessere comune trarrebbe grandissimo beneficio. Perseguirlo immediatamente è necessario non perché ce lo chiedono i mercati, e francamente neppure perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ne abbiamo bisogno, anche se il momento politico non è mai apparso in grado, certamente non negli ultimi trent’anni, di accettare il rischio dell’impopolarità per un periodo di tempo sufficientemente lungo da consentirne la realizzazione. Nessuno può dimenticare che i parametri di Maastricht (definiti «stupidi» da Romano Prodi, in quanto meramente convenzionali, come giustamente ricorda il prof. Ciravegna) sono stati liberamente accettati dal nostro Paese anche perché si pensava che così si sarebbe potuta condurre con più efficacia l’azione di risanamento, pensando che un vincolo “esterno” sarebbe stato più cogente di una autonoma assunzione di responsabilità da parte della società civile e politica del nostro Paese.

Il problema vero dell’Unione, in questo momento, è la condivisione degli oneri del (doveroso) aggiustamento. I Paesi in passato meno virtuosi non possono essere lasciati soli. Tale condivisione può essere impostata, come ampiamente sottolineato nell’articolo pubblicato in prima pagina su questo stesso numero del giornale, su un ruolo maggiore della domanda interna da parte dei Paesi più virtuosi, a cominciare ovviamente dalla Germania, ma non sul tentativo di negare la necessità dell’aggiustamento. 

Antonio Abate



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