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L'inutile utilità dell'arteQuando Voltaire scriveva, nella famosa satira «Le Mondain», che il superfluo è très nécessaire, non alludeva, col termine superfluo, ai beni culturali, apparentemente privi di utilità, ma ai beni voluttuari, quelli che vanno al di là delle strette necessità, al lusso, che dà gioia alla vita. D'altronde, nel dibattito primitivistico del secolo, il sottinteso era lo stesso: i navigatori (ad esempio Bougainville) notavano che i loro selvaggi vivevano dei beni che la natura offriva loro senza servirsene per un vantaggio commerciale e pecuniario. Perfino Rousseau, invitando a limitare i desideri umani al soddisfacimento dei bisogni strettamente necessari, intendeva combattere la corsa del suo secolo ai beni che appagano sul piano voluttuario, beni che, precisava Voltaire, sono utili perché incrementano produzione, commercio, guadagni. Non emergeva, in un'epoca tutta protesa verso il pratico e il concreto, un'idea diversa, quella dei beni superflui in quanto beni puramente intellettuali, mentali, morali, apparentemente superflui in quanto non producono ricchezza, e invece tutt'altro che inutili, se si risolvono in creazioni e ricerche che esaltano e nobilitano l'uomo. A uno studente che, negli anni della contestazione, chiedeva astiosamente al suo docente a che servisse studiare la letteratura francese, il docente rispose: «Serve ad essere meno asini». Intendeva dire: serve a vivere non come bruti, ma «per seguir virtute e canoscenza». A un altro studente che, in quegli stessi anni, contestava a un altro docente (un illustre storico) l'obbligo di seguire le sue lezioni, il docente rispose che lui non obbligava nessuno, semplicemente «offriva» agli studenti le sue lezioni come si offre un fiore a una persona cara: stava a loro saper trarne giovamento sul piano dello spirito. «Offriva»: era in quel verbo tutta la gratuità della ricerca intellettuale, una gratuità che è il presupposto di una sorta di volo verso l'alto, verso le sfere di un sapere che non mira a vantaggi economici e pratici. A questi e ad altri analoghi pensieri invita il recente, denso e bel libro di Nuccio Ordine («L'utilità dell'inutile», Bompiani, euro 9.00). Docente di Storia della letteratura presso l'Università della Calabria, responsabile della collana Bibliothèque italienne (Les Belles Lettres) e dei Classici della cultura europea (Bompiani), eminente studioso di Giordano Bruno ma anche di argomenti meno esplorati come la novellistica del Cinquecento, Ordine orienta tutto il discorso e le numerose citazioni che lo costellano (si può dire che egli sappia rinviare a tutti i grandi autori di ieri e di oggi, da Platone a Borges) in direzione della difesa, appunto, dei valori dello spirito. Quelli che si traducono in ricerca, in creazione artistica e, soprattutto, in una letteratura di cui Ordine afferma, nella prima parte del libro (non a caso definito Manifesto, nel senso che si propone come una sorta di scrittura programmatica), l'inutile utilità della letteratura contro una civiltà che dà uno spazio sempre più largo al possesso, al guadagno, al profitto e dimentica, fra l'altro, la grande lezione dei classici. Un orientamento, quest'ultimo, che, nella seconda parte del saggio, fa luce sulla ricaduta (un termine oggi di moda, ma nel nostro caso più che mai opportuno, perché proprio di caduta si tratta) sulla ricaduta, dicevamo, di quell'orientamento utilitaristico a livello scolastico e universitario: alla ricerca si sostituisce la ripetitività, alla qualità del sapere la quantità delle nozioni. Nel caso universitario, inoltre, si avvalorano le università di tipo aziendale che, ad esempio, contano pochi studenti fuori corso, senza tener conto del valore, della qualitas, dei termini effettivi del sapere proposto e diffuso. Chi scrive, per altro, sente di poter aggiungere che non sempre gli altri Paesi europei o nordamericani si distaccano in meglio dal mondo universitario italiano: a volte gli studenti Erasmus che seguivano i corsi torinesi e provenivano dalla Spagna o dalla Germania o da altrove rivelavano ignoranze abissali: il nostro liceo classico rimane pur sempre un valido e, nonostante tutto, confortante modello. La terza parte del saggio affronta un grande argomento, quello della dignitas hominis e degli argomenti sui quali si è sempre appoggiata, da Pico della Mirandola a tanti altri autori, la riflessione europea su quel tema. Certo, gli umanisti esaltano l'homo faber, Giannozzo Manetti fa un grande elogio della cupola del Brunelleschi, ma il loro discorso non è mai in difesa del lucro che il fare produce: il fare ha in sé la sua dignità e il suo valore. Pico aggiunge, anzi, che all'ardore cherubico, quello che anima la sete umana del sapere, deve subentrare l'ardore serafico, quello che si traduce nel rapporto dell'io coi suoi simili: anche in questo caso il sapere ha in sé la sua luce in quanto si risolve nell'amore, nella caritas, senza la quale neppure il sapere si rivela portatore di un'autentica, sublime dignità. Dignità e amore, cultura e dignità, dignità e ricerca della verità: i tre termini, nella riflessione di Ordine, si saldano in un rapporto unitario. Si dirà: ma allora l'indotto, l'incolto, non hanno dignità? Ovviamente non è così: l'incolto non solo affida la sua dignità al suo comportamento, ma la perde se non pensa che al vantaggio economico. Il contadino che coltiva bene la sua vigna e gioisce di far bene il suo lavoro non lo fa solo in vista del guadagno, lo fa per la gioia di realizzare e di creare: in un certo senso, ci insegna Ordine, perché anche lui ha un senso vivo dell'arte, che è gratuita e “inutile” ma dà valore all'esistere. Lionello Sozzi
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