Balbo pensatore scomodo

«E’ necessario fare un gran viaggio dentro e fuori di sé, fare ogni mestiere e conoscere le vie faticose dell’uomo. Sapere la sete e la fame, la gioia e la noia del lavoro. Provare la violenza della parola, il sacrificio dello scrivere. Vivere le classi sociali, il risentimento e l’amore: le speranze e le morti. Sentire gli uomini, tutti gli uomini e l’Uomo. Conoscere gli occhi che parlano e le mani che lavorano e che parlano».

Queste sono nel 1946 le tracce di ricerca, sicuramente autobiografiche, di Felice Balbo di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita. Era nato a Torino, il 1° gennaio 1914, nella casa che era stata del conte Cesare Balbo, ministro di casa Savoia. E’ stato uno dei grandi intellettuali cattolici, usciti consapevoli dalla tragedia della Seconda guerra mondiale, alla quale aveva preso parte come sottoufficiale degli Alpini, poi come membro della Resistenza. Filosofo e storico, fu un pensatore scomodo. Amico di Natalia Ginzburg, Giulio Einaudi, Massimo Mila e Cesare Pavese, durante la sua non lunga vita, cercò di trovare una sintesi fra i bisogni della giustizia comunitaria e quelli del benessere necessario in quel che restava del secolo insanguinato del Novecento. Oggi pochi si ricordano di lui. Lo stesso pensiero cattolico “debole” lo ha rimosso senza rendersi conto che, come spesso avviene, la vita di chi porta profezie non va giudicata sul piano degli opportunismi del momento.

Balbo faceva parte di un gruppo di pensatori, studiosi, critici sociali e imprenditori italiani (Pintor, Del Noce, Napoleoni, Rodano, Ardigò, Glisenti, Ceriani fra gli altri) che, applicando le esortazioni interiori che le righe di apertura di questo articolo esprimono, non ha avuto paura di affrontare a viso aperto le alternative “ideologiche” che il mondo parossistico e irrazionale del 1945 offriva con l’obiettivo di rendere «gli uomini più umani».

Cattolico convertito, tenacemente antifascista, è stato fra i protagonisti di un esperimento di incontro fra le tesi marxiste e le dottrine sociali della Chiesa. E’ anche uno dei pochi che ha accettato di abiurare nel momento in cui la gerarchia ecclesiale ha pronunciato un giudizio definitivo di incompatibilità fra le due appartenenze. La sua storia pubblica, tragicamente conclusasi nel 1964, a soli 51 anni, è stata attivissima, al servizio della crescita culturale ed economica del Paese.

A lui si deve il salvataggio nel periodo bellico della casa editrice Einaudi, di cui era consulente e con cui aveva rapporti dal 1941. I suoi interessi si volgono agli studi filosofici “pratici” e sociali, che lo portano a scrivere opere fondamentali come «L’uomo senza miti» e «Il laboratorio dell’uomo» fra il 1942 e il 1946. Negli anni Cinquanta due esperienze parallele lo consolidano come praticante delle sue stesse profezie. Diventa professore di Filosofia morale all’Università di Roma La Sapienza. Il suo primo corso ha come tema «Il problema dell’umanizzazione dell’uomo nella moderna civiltà industriale». Viene chiamato da Giuseppe Glisenti, direttore generale dell’Iri, a progettare il futuro delle risorse umane del grande gruppo industriale a partecipazione statale. Crea il Centro per lo Studio delle Funzioni direttive aziendali, che successivamente sarà noto con l’acronimo Ifap.

Felice Balbo appare, dunque, come il primo intellettuale italiano che vede con chiarezza la necessità di portare i principi del rispetto e della solidarietà nel cuore stesso di un sistema produttivo effervescente, destinato a configurare quella che sarà, dagli anni Settanta in poi, la settima potenza industriale del mondo. La sua eredità culturale e intellettuale è essenzialmente dedicata al tema del lavoro umano. Ne scandaglia le origini bibliche e teologiche, per confrontarle con il vissuto concreto delle popolazioni operaie e agricole. Intravede l’affermazione dei grandi flussi commerciali (il settore terziario) e l’alba dei processi di servizio e informativi che allora si definivano come «quaternario» e che sono la sostanza dell’economia immateriale di oggi.

La premessa è nell’uso del «termine “sviluppo umano” per indicare la maggiore realizzazione dell’uomo, il processo sociale conforme alla natura dell’uomo». Rifiutando e superando insieme, fin dagli anni Cinquanta, «un mercato che premia il successo e la rendita privata e non il lavoro» e i sistemi economici pianificati, discorsivi e collettivistici, Balbo ha insegnato mezzo secolo fa a guardare ad una società in cui «le macchine sociali non solo crescono, ma si perfezionano. Ciò significa che la subordinazione aumenta, ma la fatica, il disagio, la frustrazione possono diminuire e, in casi limite, scomparire». L’automazione è vista come potenziale liberatrice. E’ il pensiero che illustra le esperienze di altri grandi imprenditori italiani, come Adriano Olivetti. 

I pericoli non si nascondono: «La strada è aperta ad una totale integrazione dell’uomo alla macchina oppure all’emergere crescente dell’uomo dalla macchina». Che si realizzi la seconda delle due ipotesi dipende per Balbo dall’orientamento che prenderà il lavoro di innovazione e invenzione definito come «lavoro per la scoperta dei bisogni umani». Alla base del progetto formativo elaborato per l’Iri, Felice Balbo aveva messo un obiettivo chiaro: sottrarre le persone il più possibile al lavoro routinario, per «portarle al lavoro d’invenzione, trasformando il lavoro d’impresa da capitalista in dirigente».

E’ facile oggi leggere in questa filosofia la scoperta anticipata dei «lavoratori della conoscenza», che occupano tutte le posizioni strategiche nelle knowledge companies, le aziende innervate da Internet e dalla ricerca avanzata in tutti i settori. Balbo non ha visto le “meraviglie” dell’impresa virtuale, ma ha segnato il campo per la difesa della dignità di tutti i lavoratori, mostrando (sono le ultime parole del saggio su «Il lavoro come dimensione essenziale dell’uomo», scritto nel 1962) che «il lavoro d’invenzione è scoperta dei bisogni umani dell’umanità in quanto nasce dall’attenzione d’amore a tutto».

Gian Paolo Bonani



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