Quanto costa quella stabilità

Nell’ultima settimana la Legge di stabilità varata dal governo per la simultanea presentazione al Parlamento e alla Commissione europea è stata oggetto di innumerevoli commenti, sull’impianto generale e sul merito delle specifiche misure.

La sensazione più diffusa è la delusione. Tutti, a cominciare dallo stesso premier Letta, pensano che l’iter parlamentare debba condurre ad un rafforzamento dell’impatto del provvedimento sull’economia del Paese. Il sindacato, tanto per non dimenticare i vecchi rituali, ha già stabilito di indire quattro ore di sciopero. Per non parlare delle fibrillazioni all’interno delle forze politiche della “grande coalizione”, culminate nelle dimissioni di Mario Monti dalla presidenza di Scelta civica, ma vivissime all’interno del Pdl e dello stesso Pd, come dimostrato dai “mal di pancia” del viceministro Fassina e dalla nota congiunta redatta da 24 senatori del Popolo delle libertà che stigmatizza come non ulteriormente tollerabile «la critica distruttiva e permanente di parte del Pdl alla Legge di stabilità e all’operato del governo».

Non c’è dubbio che la predisposizione del documento appaia condizionata dalla fretta. D’altra parte, mentre si avvicinava la scadenza della presentazione alle Camere e alla Ue il governo ha dovuto combattere per la propria sopravvivenza, e i dieci giorni perduti si vedono tutti. Tuttavia, ad un esame il più possibile “tecnico”, va riconosciuto che nel progetto c’è una precisa logica di fondo, che può non essere condivisa, ma che emerge molto chiaramente, ed è quella di un Paese che è uscito dall’emergenza, che si affaccia alla ripresa e che può dotarsi di una Finanziaria “normale”. Forse anche troppo, verrebbe da dire.

Alcuni commentatori hanno parlato di Finanziaria «ansiolitica», e per certi versi hanno ragione. L’obiettivo fondamentale sembra proprio essere stato quello di non dare cattive notizie, rassicurare il Paese all’indomani di sacrifici durissimi, che nei prossimi mesi dovranno portare il frutto, a dire il vero alquanto striminzito, di una ripresa che segue cinque anni terribili in cui il Paese ha perduto dieci punti di Prodotto interno lordo. Una Finanziaria che porta la visione tipica di una “grande coalizione” estremamente litigiosa e che quindi non poteva concedersi misure particolarmente incisive, in particolare sul fronte del cuneo fiscale, che avrebbero richiesto tagli indiscriminati politicamente insostenibili nell’attuale situazione. In sostanza, come riconosciuto anche a livello confindustriale, la direzione delle misure (cuneo fiscale, tagli alla spesa dei ministeri, responsabilizzazione fiscale degli enti decentrati) è quella giusta, il quantum un po’ meno.

A più riprese s’è ironizzato in questi giorni sull’irrilevanza degli sgravi fiscali ai lavoratori dipendenti e alle imprese, e sono state lanciate bordate sull’ennesimo aumento dell’imposta di bollo sui depositi bancari, per non parlare della nuova Tasi che potrebbe costare più dell’Imu sulla prima casa e della clausola che consentirebbe al governo di compensare con un incremento automatico delle accise lo sforamento determinato da un eventuale insuccesso delle politiche di spending review.

Intendiamoci. Chi scrive ritiene che il Paese sia ancora ben lontano dal potersi considerare fuori pericolo, che quanto accaduto tra il 2008 e oggi rappresenti un autentico «cambiamento di paradigma» che ci condurrà, volenti o nolenti, a vivere in un Paese profondamente diverso da quello del passato, e che la bomba di un debito che sfiora il 130 per cento del Pil richiederà parecchi anni di duro lavoro per poter essere disinnescata. Ma ritiene anche che chi spara a zero sulla manovra dovrebbe quantomeno essere informato su ciò di cui disquisisce e coerente nelle proprie affermazioni e nei propri comportamenti.

Il taglio del cuneo fiscale è insignificante? Probabilmente sì, e certo si poteva fare di meglio, ad esempio intervenendo sulla miriade di sussidi e defiscalizzazioni ad una molteplicità di settori produttivi piccoli e grandi, che non mancano di minacciare l’apocalisse quando i loro privilegi vengono toccati. Se si vuole un intervento più incisivo, basta una bella sforbiciata a tutti questi privilegi, e lo si può fare in Parlamento.

I sindacati protestano per l’insufficiente attenzione al lavoro nella Legge di stabilità ? Secondo il segretario generale della Cgil Susanna Camusso «è un errore fare una Legge di stabilità che non è nel segno del cambiamento e non ha messo il lavoro al centro», mentre per il leader della Cisl Raffaele Bonanni lo sciopero è stato indetto contro «il partito della spesa pubblica, il vero gruppo che blocca la possibilità di crescita del Paese». Hanno tutte le ragioni del mondo. Ma dimenticano che il pubblico impiego è il settore maggiormente sindacalizzato di tutto il panorama del mercato del lavoro italiano, e che proprio nella pubblica amministrazione il sindacato rappresenta una delle forze maggiormente conservatrici, in materia di spesa pubblica. In realtà, a quanto è dato capire, le organizzazioni dei lavoratori sono spazientite più che altro per il prolungamento del blocco degli stipendi dei pubblici dipendenti, prolungato anche per il 2014. Lo considerano inaccettabile. Ma dovrebbero comprendere che la sicurezza pressoché assoluta del posto di lavoro vale parecchio, e non può più, nel mondo del fiscal compact e della spending review, essere considerato un diritto acquisito.

Lo scambio tra garanzia del posto di lavoro e moderazione salariale non è immorale, ma se non piace, si può benissimo introdurre la mobilità e la facoltà di licenziamento per motivi economici nel pubblico impiego. Si pagheranno salari più elevati, ma si licenzieranno le persone in sovrappiù. Basta mettersi d’accordo. Su queste colonne è già stato più volte precisato che la pubblica amministrazione non si riforma tagliando le auto blu, riducendo il numero dei parlamentari o lesinando la benzina alle “volanti” della polizia, ma mettendo in discussione il perimetro del settore pubblico, mettendosi d’accordo su cosa esso deve fare (e non fare) e su come tutto ciò va fatto, senza guardare in faccia nessuna categoria. I sindacati sono disponibili a questo?

Quanto alla Tasi, all’imposta di bollo sui conti correnti e alla clausola di salvaguardia incrociata, le critiche sembrano dimenticare che la Legge di stabilità doveva assolutamente rispettare un unico requisito, ossia l’accettabilità europea rispetto al sentiero di aggiustamento previsto dal fiscal compact. E questo fa, indiscutibilmente. Anche se sarebbe stato meglio farlo agendo solo dal lato della spesa, cosa però impossibile in pochi giorni e con la maggioranza parlamentare che il governo si ritrova. Nello specifico, per quanto riguarda la Tasi, tutto dipenderà dalle aliquote che sceglieranno i Comuni, e ci permettiamo di affermare che ciò è un bene, perché spetterà ai cittadini “contrattare” con il proprio sindaco i servizi davvero indispensabili, e la conseguente misura dell’imposta: questo è il vero federalismo fiscale. Quanto al bollo, nessuno può ignorare che si tratta di una minipatrimoniale sulla ricchezza finanziaria, e che quindi sposta, correttamente, l’imposizione dalle persone alle cose, come tante volte richiesto proprio dal centro-destra. E infine, è inutile far osservare che chi tuona contro la clausola di salvaguardia mostra una gran coda di paglia: se la spending review avrà successo, e quindi se le diverse componenti del settore pubblico sapranno mettersi in gioco e accettare di ripensare il loro ruolo, la spesa verrà tagliata, e non vi sarà nessun aumento di accise. Quindi perché preoccuparsi? Forse perché si pensa già di fare muro contro i futuri tagli di spesa?

Antonio Abate

 



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