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Gadda ingegnere scrittore«La fama di Carlo Emilio Gadda (nato a Milano nel 1893), fino ad anni recenti scrittore per iniziati, si è dilatata, dopo la pubblicazione in volume (1957) di “Quer pasticciaccio brutto de via Merulana”, fino alla misura d’una vera popolarità». Così scriveva Gianfranco Contini presentando la quarta edizione de «L’Adalgisa» nella Nue di Einaudi nel 1963. Oggi, a cinquant’anni di distanza, anche se l’ingegnere-scrittore è diventato un classico della letteratura del Novecento, uno dei più grandi per talento stilistico e visione del mondo, non si può dire che la sua fama si sia ulteriormente dilatata né che sia diventato un autore popolare, ma sia rimasto, forse più di prima, «uno scrittore per iniziati». «L’Adalgisa. Disegni milanesi» uscì in prima edizione da Le Monnier nei «Quaderni di letteratura e d’arte» diretti da Giuseppe De Robertis nel dicembre 1943, con data editoriale 1944. Si era nel pieno della guerra, con l’Italia divisa in due, percorsa da eserciti stranieri rivali. Seguì una seconda edizione nel ’45, decurtata di tre dei dieci racconti che componevano il volume, per la carenza di carta. Sotto il titolo «I sogni e la folgore» (Einaudi, 1955) uscì la terza edizione, insieme a «La Madonna dei Filosofi» e «Il castello di Udine». Ora esce, ottimamente curata da Claudio Vela, l’edizione critica del testo, basata sulla prima edizione fiorentina (Adelphi, pp. 432 pagine, euro 24), con un attento confronto delle varianti e persino dei refusi tipografici o dell’autore. In questo libro, uno dei suoi capolavori insieme a «La cognizione del dolore» e al «Pasticciaccio», Gadda ci offre un’immagine stratificata della città di Milano nei primi quarant’anni del Novecento, ne coglie la storia, la società, i comportamenti, i riti, i costumi, la lingua, con l’enumerazione di arredi, mobili, suppellettili, oggetti delle case, e cognomi delle varie famiglie. Le donne, aristocratiche, borghesi, popolane, diventano le signore del linguaggio, attraverso i ritmi e le sonorità del dialetto che riecheggia quello di Porta. Adalgisa, tenera e possessiva, materna ed esplosiva, protagonista dell’ultimo racconto, incarna l’eros lombardo. All’origine de «L’Adalgisa» c’è «Un fulmine sul 220», romanzo incompiuto scritto tra il 1932 e il 1936 e pubblicato nel 2000 da Garzanti, che narra gli amori tra una borghese e un popolano, garzone di macelleria. Sempre di Gadda è uscito proprio in questi giorni «Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969)» (Adelphi, pp, 239 pagine, euro 14), arricchito da un saggio di Giorgio Pinotti su Citati gaddista e da un altro di Citati su «La cognizione del dolore» e il «Pasticciaccio». L’amicizia tra Gadda e Citati inizia nel 1955, quando il giovane critico, appena venticinquenne, recensisce «Giornale di guerra e di prigionia», e si consolida due anni dopo, con la pubblicazione del «Pasticciaccio» per Garzanti, definito da Citati in una entusiastica recensione «uno dei culmini della letteratura degli ultimi cinquant’anni». Gadda, che sfiora il quintale di peso e soffre di problemi di cuore e di circolazione, non rinuncia a mangiare pranzi succulenti e si definisce «pantagruelone gargantuoso». Difende i suoi adorati «Promessi sposi» dall’attacco di Moravia, apprezza «La dolce vita» di Fellini, non si entusiasma per il «surrealismo alquanto gelido e congegnato di Landolfi» e gli preferisce il giovane Parise, «un surreale d’impeto, immediato e spontaneo» conosciuto nel 1961, che lo porta sulla sua spider rossa in gita a Bracciano per un pranzetto «con certi gnocchi trascendenti e digeribilissimi». Non sopporta Moravia e la Morante, «che urla e pontifica troppo» durante le cene in trattoria a Trastevere. Citati, consulente Garzanti dal ’56 al ’66, deve parare e rintuzzare le violente e continue lamentele sull’editore da parte di Gadda, che scrive: «io non sono un meccanismo della sua macchina». Proprio come Fenoglio, l’ingegnere-scrittore si sente preso «tra due fuochi», tra Garzanti e Einaudi, che si danno battaglia per accaparrarsi i suoi testi, mentre lui, oppresso da mille difficoltà di salute e di denaro, tende a procrastinare le date di consegna. Citati non è soltanto il suo editor, ma un amico fedele sino alla vigilia della morte, avvenuta nel 1973, quando gli legge il capitolo del matrimonio di sorpresa dei «Promessi sposi». Se Gadda si inalbera per qualche recensione malevola, Citati gli scrive: «Cosa vuole, i Suoi libri sono troppo belli, intelligenti, generosi e moderni per essere capiti dagli stupidi, dai presuntuosi e dai vecchiacci rimbambiti e ammuffiti che, in Italia, fanno la critica letteraria, danno i premi e così via». Citati lo invita più volte d’estate nelle sue case in Liguria e in Toscana, ma Gadda, prigioniero del caldo afoso di Roma e acciaccato da malesseri vari, non se la sente di affrontare il viaggio. Il critico diventa per lo scrittore una sorta di filtro che lo protegge dalle malevolenze del mondo, dalle piccole angosce quotidiane: «Per certi versi mi aveva eletto suo padre (io ero infinitamente più giovane di lui); mi chiedeva consiglio per tutte le cose della vita: le tasse, la domestica, il cibo, l’editore, il rapporto con gli scrittori e tutti gli esseri umani». Una o due volte la settimana, Citati va a trovarlo a casa sua, in via Blumenstihl 19 a Roma, e discutono di libri, da leggere o da scrivere: «Parlavamo soprattutto di classici. Non leggeva volentieri né i macaronici né gli scapigliati (che detestava); e nemmeno uno scrittore grandissimo come Rabelais. I suoi veri padri erano i romanzieri e i filosofi: Cervantes, Manzoni, Balzac, Dostoevskij, Proust; Saint-Simon, Platone, Spinoza, Leibniz e Freud. Verso Flaubert era piuttosto freddo». Massimo Romano
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