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Bischof, la guerra negli occhi dei bambiniSognava di diventare un pittore e invece è stato uno dei più grandi fotografi del Novecento. Una vita breve ma costellata di primati quella di Werner Bischof, definito il «fotografo umanista» per la sua straordinaria capacità di mettere le persone e le questioni sociali al centro dei suoi scatti, seppur sullo sfondo dei grandi avvenimenti di cui fu testimone. Nato a Zurigo nel 1916, dopo aver frequentato la Scuola d’arte, ad appena vent’anni apre uno studio fotografico. Nel 1949 entra a far parte della celebre agenzia fotografica Magnum e dopo soli due anni, con un réportage sulla carestia dello Stato indiano del Bihar, ottiene il successo internazionale. Lontano dal sensazionalismo e da quel dolore esibito che sarebbe facile catturare con l’obiettivo, Bischof antepone sempre le vicende umane ai fatti storici ai quali fanno da sfondo. Come racconta la mostra «Werner Bischof Retrospettiva», ospitata fino al 16 febbraio 2014 nelle sale di Palazzo Reale a Torino. Organizzata dalla casa editrice Silvana Editoriale, in collaborazione con l’agenzia fotografica Magnum Photos e la Direzione regionale per i Beni culturali e paesaggistici del Piemonte, la rassegna espone 105 fotografie in bianco e nero organizzate secondo una scansione temporale che ripercorre le principali tappe professionali e umane di questo «artista della fotografia», come egli stesso amava definirsi. Dopo essersi dedicato alla fotografia di moda, alla fine della Seconda guerra mondiale, Bischof decide di attraversare la Germania in bicicletta per documentare la fine della guerra. Viaggia in Francia, in Olanda, ma lo scenario che gli si presenta è desolante. La Svizzera, neutrale, è stata una sorta di isola felice, mentre al di fuori dei suoi confini regna solo la devastazione. «Con lo scoppio della guerra arrivò anche la disintegrazione della mia torre d’avorio», dirà in seguito. «Da quel momento la mia attenzione si sarebbe concentrata sul volto della sofferenza umana […]. Bambini e anziani abbandonati e, alle loro spalle, esplosioni di granate e veloci autoblindi». L’Europa post-bellica è rappresentata dalla foto in controluce del Reichstag, uno scheletro circondato dalle macerie, così come dall’immagine scattata a Dresda al monumento a Martin Lutero, rimasto miracolosamente intatto in uno scenario di distruzione generale. Ma gli anni dell’Europa (1945-1950) sono anche di grande fermento. Il segnale di un nuovo inizio è ben simboleggiato dalle foto che Bischof dedica ai bambini. Tra gli scatti che lo hanno reso celebre quello dei bimbi che guardano spaesati attraverso il vetro del treno della Croce rossa che corre verso Budapest. Colpito da ciò che ha visto in Europa, sente sempre più inderogabile l’esigenza di osservare da vicino la realtà. Sono gli anni della Magnum e dell’India dove, nel 1951, trascorrerà sei mesi per documentare la carestia nello stato del Bihar. Questa esperienza lo cambierà per sempre. In nessun modo il filtro della macchina fotografica riesce ad attutire lo sgomento per le estreme condizioni di vita e la miseria che ha davanti agli occhi. Le foto di corpi scheletrici sdraiati per terra, di donne che chiedono cibo, di una madre che implora per il suo bambino fanno il giro del mondo. Ma Bischof si indegna anche per le scene di quotidiana ingiustizia, come testimonia la foto del ricco mercante di Bombay che passa indifferente vicino ad alcuni uomini che dormono per strada. Dal 1951 al 1952 fa base in Giappone e viaggia in Corea, Hong Kong, Cina in Indocina. Per il fotografo è un periodo difficile, durante il quale la necessità di “raccontare” le persone è sempre più in contrasto con le richieste di documentare “storie militari”, che deve invece accettare per motivi economici. Commentando un servizio fotografico su Hokinawa dirà: «Questo reportage militare mi fa venire il mal di pancia». Il soggiorno giapponese, però, gli regala anche momenti di serenità, come testimonia uno dei suoi scatti più famosi, che ritrae due monaci mentre camminano sotto la neve nel tempio di Meiji: il bianco della neve è purissimo, le sfumature di grigio disegnano alla perfezione le chiome degli alberi. Tutto contribuisce a rendere questo paesaggio quasi perfetto dove, con grande maestria, Bischof utilizza la luce come unico elemento creativo. Sempre in questo periodo «Life» gli commissiona un réportage sulla Corea, ma l’interesse fotografico degli editori non coincide con il suo. La rivista vuole immagini che trasmettano azione, mentre a Bischof interessano di più gli effetti della guerra sulla popolazione: ritenute prive di originalità le foto non verranno mai pubblicate. Anche il réportage sul campo di prigionia delle Nazioni unite di Geoje-Do non avrà esito positivo. Disapprova fortemente la «rieducazione politica» che viene impartita ai prigionieri, tra cui molti bambini. E non riuscendo a fare le foto promesse per vendere il servizio dirà: «Scattare in un campo di prigionia non è umano». Nel 1952 Paris Match gli propone un incarico per documentare la guerra tra il governo coloniale e i guerriglieri di Ho Chi Minh. Bischof accetta, ma questo lavoro lo devasta completamente: «Ne ho abbastanza. Questo continuo andare a caccia di storie è diventato insopportabile. Non fisicamente, ma mentalmente». Stanco di tanta sofferenza, si rifugia in una quotidianità fatta di cose semplici. Decide di partire per il Sud America con la moglie Rosellina, che lo accompagnerà fino a Città del Messico, facendo tappa a New York. Gli scatti americani sono i più sereni della sua carriera. Lontano dalle guerre ha finalmente la possibilità di concentrarsi su ciò che davvero lo interessa: le persone viste nella loro straordinaria normalità. La celebre immagine del ragazzo che cammina sulla strada per Cuzco suonando il flauto ben sintetizza il nuovo stato d’animo del fotografo. Il 16 maggio del 1954, a soli 38 anni, Bischof muore prematuramente insieme ai suoi compagni di viaggio in un incidente stradale precipitando in una gola delle Ande peruviane. Ironia della sorte, nove giorni più tardi anche il collega Robert Capa perderà la vita in Indocina. La carriera di Bischof è stata brevissima, ma ciò non gli ha impedito di documentare con lucidità ed empatia la sua personale visione del mondo: sempre perfetta nella composizione dell’immagine, ma soprattutto ricca di umanità. La mostra, «Werner Bischof Retrospettiva», è aperta fino al 16 febbraio a Palazzo Reale (piazza Castello) a Torino. Per info www.ilpalazzorealeditorino.it. Orari: da martedì a domenica 9.30-18.30, lunedì chiuso. Barbara Giambusso
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