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Gli ospedali in Italia: un abisso fra Nord e SudDiciamolo subito, anche se non è politicamente corretto, così chi non vuole sapere dove può essere curato meglio o dove finiscono i suoi soldi di contribuente, può girare pagina e leggersi un altro articolo. Le performances degli ospedali italiani al Nord sono quasi sempre tra le migliori, mentre al Sud finiscono troppo spesso in fondo alla classifica, anche per il rischio di mortalità più alto, con differenze vistose rispetto alla media nazionale e a maggior ragione con quella europea. Niente di nuovo, si dirà. Ma a ribadirlo sono i dati del «Programma nazionale esiti 2012» (Pne), resi noti la scorsa settimana dall’Agenas, l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. L’Agenas ha come obiettivo «il supporto tecnico-operativo alle politiche di governo condivise tra Stato e Regioni per lo sviluppo e la qualificazione del Servizio sanitario nazionale». Tra le sue attività c’è appunto il Programma nazionale esiti (Pne), giunto quest’anno alla quarta edizione, che confronta i dati relativi a 47 indicatori comuni, forniti obbligatoriamente da tutti i 1.440 ospedali pubblici e convenzionati. Gli indicatori vanno dalla mortalità a 30 giorni dal ricovero per infarto miocardico acuto ai parti con taglio cesareo, o al reintervento di artroscopia del ginocchio entro sei mesi. L’Agenas ribadisce che è impossibile fare confronti e graduatorie aggregando diversi indicatori, in ambito e peso differente, e che l’obiettivo del Pne è quello essere «uno strumento prezioso per chi ha responsabilità di governo, amministrative e cliniche, che consente di operare per migliorare il livello delle prestazioni erogate». Tuttavia la classifica è spontanea, e il risultato è demoralizzante. «Eccole le montagne russe degli ospedali d’Italia», annota il quotidiano «Il Sole-24 Ore», che, appunto, propone un ampio servizio sul Pne osservando: «La Toscana al top, subito dopo Emilia Romagna e Lombardia. La Campania maglia nera e con lei Puglia e Molise. Le Regioni del Nord sempre tra le migliori; quelle del Sud, e soprattutto se commissariate o sotto la scure del piano di rientro, nel fondo del ranking. E ospedali (il Di Venere, a Bari). dove la mortalità a 30 giorni dal ricovero è 42 volte più elevata del migliore d’Italia (il Serristori di Firenze). O ancora l’ospedale (il Grottaglie di Taranto) che solo nell’1 per cento dei casi opera una frattura del femore nei canonici due giorni, contro il 94 per cento del più solerte d’Italia (il Sant’Eugenio di Roma)». Gli fa eco «la Repubblica», che ha stilato una classifica dei primi dieci ospedali e degli ultimi dieci ed annota: «Il San Raffaele di Milano, afflitto da scandali e debiti, è ancora il miglior ospedale italiano per qualità delle cure. Seicentocinquanta chilometri più a Sud, al Federico II di Napoli, quest’estate per mandare in ferie il personale hanno chiuso i reparti di oculistica e chirurgia plastica». Non solo: «Sono cinque le strutture campane tra le peggiori dieci d’Italia». Comunque, anche a non voler fare confronti, i numeri parlano da soli. Cominciamo con l’indicatore relativo ai parti con taglio cesareo primario. Questo valore è usato con una certa frequenta a livello internazionale, perché con altri è un indice di qualità del servizio sanitario: il parto cesareo fa supporre una urgente esigenza medica. Spesso, invece, è una scelta femminile legata alla speranza di minor dolore (anche se si tratta di intervento chirurgico) e di migliore assistenza offerta dalle case di cura private. In ogni caso, la donna che partorisce per la prima volta con il cesareo ha il 95 per cento di probabilità di partorire di nuovo in questo modo. In Occidente il fenomeno è in aumento, e in Italia si è passati da circa il 10 per cento all’inizio degli anni Ottanta al 26,27 per cento nel 2012. Ebbene, al Nord i cesarei primari si evitano: il dato migliore è quello dell’Ospedale civile di Palmanova (Udine), con 4,64 cesarei ogni cento parti, seguito da altre strutture in Lombardia, Toscana, Emilia Romagna e Veneto, dove comunque non si supera l’8,24 per cento. Tutto al contrario in Campania, dove hanno sede nove delle dieci strutture con i valori più elevati d’Italia: il record spetta alla casa di cura «Villa Cinzia» di Napoli (93,61 per cento), seguita dal Presidio ospedaliero San Rocco di Sessa Aurunca (Caserta; 88,33 per cento) e dalla casa di cura «Mater Dei» di Roma (87,79 per cento). E nasce il dubbio che in questi casi non siano estranei il rimborso più alto e la possibilità di programmare l’intervento, e quindi, le “urgenze” e il lavoro. Un altro indicatore riguarda la frattura del collo del femore. Come noto, l’evento si verifica soprattutto nelle persone anziane e l’intervento chirurgico dovrebbe essere eseguito prima possibile per facilitare la ripresa del funzionamento dell’arto ed evitare altre patologie. Per questo è raccomandato l’intervento entro due giorni dal ricovero. Invece, secondo i dati del Pne, se il più efficiente è l’ospedale Sant’Eugenio di Roma (94,24 per cento), quello meno efficiente è in Puglia (il Grottaglie, nel Comune omonimo, in provincia di Taranto; 1,05 per cento), Regione che per questo indicatore posiziona tre suoi ospedali tra gli ultimi dieci italiani. Altro caso: dopo un bypass aortocoronarico il rischio di mortalità a 30 giorni è zero presso il Centro cardiologico Fondazione «Monzino» di Milano e, all’opposto, è del 14,78 per cento nell’azienda ospedaliera Sant’Anna e San Sebastiano di Caserta. Nel caso di infarto miocardico acuto con esecuzione di angioplastica coronarica (Ptca), il rischio di mortalità a 30 giorni dal ricovero è minimo nell’ospedale di Circolo Manzoni a Lecco (0,65 per cento) e massimo nel presidio ospedaliero Umberto I di Siracusa (17,58 per cento). E i confronti sono simili per quasi tutti gli altri indicatori. Come dire che in Italia, a pari patologia, la possibilità di sopravvivenza è diversa a seconda della sede della struttura. Certo, non si deve far di tutta l’erba un fascio: anche al Sud ci sono strutture eccellenti. Certo, alcuni primari hanno diritto a difendere il loro reparto, il loro forse ottimo “orticello” di oculistica o di otorinolaringoiatria, inserito in un ospedale che si classifica “pecora nera” per la cardiochirurgia o per gli interventi tumorali; ma una rondine non fa primavera. La speranza è che davvero, come ha detto il ministro della Salute Beatrice Lorenzin «la Sanità non ha bisogno dei partiti, ma di idee, buona volontà e capacità operativa». È l’augurio che ci facciamo tutti. Anche per non dover fare il verso a Massimo d’Azeglio: «Abbiamo fatto l’Italia. Ora dobbiamo fare gli ospedali italiani». Michele Gota
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