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Erich Priebke e il suo "onore"Erich Priebke, ex capitano delle SS condannato all’ergastolo per la strage delle Fosse Ardeatine, ma da quindici anni, data l’età, agli arresti domiciliari presso la famiglia del suo legale a Roma, è morto venerdi 11 ottobre. Aveva cent’anni, compiuti nel luglio scorso. Al momento in cui scrivo questa nota, non si sa ancora quando sarà celebrato il suo funerale e dove sarà sepolto: non lo vogliono nemmeno da morto né Roma, né l’Argentina, dove visse esule a Bariloche dal 1947 al 1994 dopo la fuga dall’Italia nel primo dopoguerra, né la Germania, dove era nato a Henningsdorf il 29 luglio del 1913, e dove era rimasto orfano di entrambi i genitori quando aveva sette anni ed era stato poi allevato da una zia. Scrivo questo articolo in prima persona perché, come forse qualcuno sa, ho avuto con lui una vertenza giudiziaria che vale la pena di raccontare perché tocca direttamente la personalità di Erich Priebke. Quando egli venne assolto il 1° agosto del 1996 dal Tribunale militare di Roma per prescrizione del reato di strage alle Fosse Ardeatine del 24 marzo 1994 (a cui aveva direttamente partecipato sia preparando la lista dei giustiziandi in collaborazione con la polizia fascista italiana, sia uccidendone due con colpi di pistola alla nuca) commentai quella sentenza in un editoriale sul settimanale «Famiglia Cristiana». Condensai in una frase la sua carriera militare-poliziesca nelle SS (e prima ancora nella Gestapo) in cui si entrava da volontari, conoscendone benissimo e dunque condividendone il progetto di dominio totalitario del mondo, alla cui attuazione era ritenuto indispensabile lo sterminio (o la resa in schiavitù) delle «razze inferiori», prima fra tutte quella ebraica. Quella frase diceva testualmente: «Priebke era un nazista votato a quel progetto; per servirlo aveva partecipato al rastrellamento degli ebrei del Ghetto di Roma, ne aveva organizzato la deportazione verso i campi di sterminio in Germania e, chiamato a compiere la rappresaglia per l’attentato di via Rasella, vi partecipò eliminando con le sue mani due dei cinque ostaggi risultati in soprappiù rispetto alla terrificante “regola”: dieci civili uccisi per ogni soldato tedesco vittima dell’attentato». Quella sentenza assolutoria provocò subito una forte reazione popolare a Roma e, per evitare incidenti e sommosse, il governo Prodi, attraverso il ministro della Giustizia Flick, ordinò che in attesa del più che probabile appello l’ex capitano delle SS fosse comunque tenuto in arresto. Un secondo processo lo condannò nel 1997 a 15 anni, poi ridotti a 10 per l’età e la salute. Infine la Corte d’appello militare di Roma nel marzo di due anni dopo cambiò ancora il verdetto e lo condannò all’ergastolo, confermato dalla Corte di cassazione. Da allora, Priebke è vissuto agli arresti domiciliari in casa del suo avvocato, Paolo Giachini, dove è mancato venerdi scorso «all’ora di pranzo, per vecchiaia». Lo stesso legale ospite ha fornito ai media il suo testamento-intervista, da rendere noto dopo la morte, in cui Priebke non solo dichiara di non essersi mai pentito di quanto ha fatto per obbedire a degli ordini superiori, ma definisce «un falso» le notizie sulla persecuzione di milioni di ebrei nel lager nazisti. Racconta di essere stato a Mauthausen nel 1944 per interrogare il figlio di Badoglio colà detenuto, e di avervi notato «immense cucine in funzione per gli internati e all’interno anche un bordello per le loro esigenze». Naturalmente, nessuna camera a gas, tutte «invenzioni» dei vincitori della guerra: altro che Olocausto… Per far valere queste convinzioni e sostenere la propria sostanziale innocenza di soldato fedele alla sua patria, Erich Priebke ha querelato per qualche tempo diversi giornalisti, come me critici della prima sentenza assolutoria. A me e al direttore di «Famiglia Cristiana» nel 1966 don Leonardo Zega è arrivato il 7 giugno del 2000 un atto di citazione in sede civile per diffamazione aggravata, con la richiesta complessiva di 500 milioni di lire per riparare ai danni provocati da quell’editoriale «gravemente lesivo dell’onore, della reputazione e della dignità personale del signor Ench Priebke». Il punto, dunque, era «l’onore offeso». La motivazione principale dell’accusa riguardava la sua partecipazione al rastrellamento degli ebrei del Ghetto di Roma, di cui nel mio editoriale non si forniva nessuna prova diretta, perché non ne esistono (come non esistono prove del contrario) e perché soprattutto non ne sentivo assolutamente il bisogno, bastava il ragionamento che partiva dall’importanza di Priebke in quell’ambiente e in quelle circostanze. Io mi difesi, attraverso lo studio legale milanese Corso Bovio con l’avvocatessa Stefania Farnetani, opponendo due elementi di fatto, che dimostravano l’assoluta partecipazione di Priebke a tutte le operazioni del comando delle SS di via Tasso, di cui era il secondo autorevole e sperimentatissimo ufficiale dopo il colonnello Kappler. Il primo era un rapporto che quest’ultimo inviò al generale Wolff, comandante in capo delle SS in Italia, la sera stessa del 16 ottobre 1943, giorno del rastrellamento e dell’inizio della deportazione di complessivi 1.022 ebrei, che si apre con queste parole: «Oggi si è iniziata e si è conclusa l’azione antigiudaica secondo un piano preparato in ufficio che consentisse di sfruttare le maggiori eventualità. Sono state messe in azione tutte le forze a disposizione della politica di sicurezza e di ordine in vista della assoluta sfiducia nella polizia italiana». Dunque, «in ufficio» era presentissimo e competentissimo proprio il capitano Erich, che poteva non avere partecipato direttamente e materialmente all’operazione nel Ghetto (che aveva richiesto la presenza di venti o trenta uomini di Kappler, ma anche di oltre 430 militari e agenti di polizia politica provenienti dalla Germania, guidati dal colonnello Dannecker) ma che vi avesse «partecipato» organizzandola non c’era nessun motivo per dubitarne. Il secondo elemento di fatto era l’ordine che lo stesso Priebke aveva inviato qualche tempo dopo la razzia nel Ghetto al direttore del carcere di Regina Coeli di trasferire (non si sa perché) due detenuti ebrei, Isacco Tagliacozzo e Manlio Sonnino, dal reparto tedesco a quello italiano. Come risulta anche dalla sentenza del 1998, Priebke era stato incaricato da Kappler di sovrintendere alla gestione, appunto, dei detenuti arrestati dalle SS: aveva dunque su di loro il potere di vita e di morte, quindi anche di deportazione. Il che si confermò nel marzo successivo, quando alle Fosse Ardeatine furono fucilati 75 ebrei, tutti quelli che restavano nel reparto tedesco di Regina Coeli, a disposizione di Erich Priebke. Infine, oggi si sa, grazie a un archivio della Cia, che il comando di Berlino delle SS nell’ottobre del 1943 chiese al colonnello Kappler che fine avesse fatto un “camion Priebke” su cui erano stati caricati abiti della principessa Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III (destinata a morire in un lager), di Ciano e del principe Filippo von Hessen, insieme ad oggetti, fra i quali i cinquanta chili d’oro consegnati dalla comunità ebraica di Roma a Kappler, che glieli aveva chiesti in cambio della rinuncia alla deportazione di duecento suoi membri. Se quel camion si chiamava «Priebke», qualche ragione ce l’avevo anch’io… Il mio processo, che si svolse nel 2001 davanti al Tribunale civile di Alba, si chiuse con il rifiuto a Priebke di ricevere il risarcimento da 500 milioni di lire che mi aveva chiesto. Nel passo per me più importante della sentenza (pubblicata su disposizione del giudice istruttore Luciano Panzani su «Famiglia Cristiana» due anni dopo) è questo: «Ad avviso del giudicante l’attribuzione da parte del giornalista Del Colle di numerosi fatti veri, indubbiamente lesivi della reputazione e dell’onore dell’attore, in una con due fatti, più gravi, non dimostrati, consente di escludere che l’attribuzione di tali ultimi fatti (il rastrellamento degli ebrei e l’organizzazione della deportazione) possa avere ulteriormente inciso sull’onore e sulla reputazione del Priebke». Il giudice Panzani aggiungeva che nella sentenza del secondo processo si leggono queste parole: «…può sicché con sicurezza affermarsi che il Priebke all’interno del Comando tedesco di via Tasso svolgeva un ruolo di preminente rilievo, partecipando ad operazioni di polizia, arresti,interrogatori, torture. Demerito e disonore sono i sostantivi che i giudici militari ritengono di poter applicare al Priebke, già solo in considerazione del ruolo svolto in via Tasso e della provata partecipazione alle torture che ivi si praticavano». Beppe Del Colle
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