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Le carceri, tragedia italianaMentre scriviamo sulla situazione dei luoghi di detenzione, ci accorgiamo che le parole «carceri» e «immigrati» si intrecciano drammaticamente. Spesso si entra nel merito di tali situazioni con il piede sbagliato. A volte è troppo tardi e l’irreparabile è avvenuto, vedi ciò che è accaduto a Lampedusa; a volte si strumentalizza un monito espresso con autorevolezza, come è avvenuto con il presidente Napolitano. Questi, per la prima volta, si è avvalso, della facoltà istituzionale conferitagli dall’art 87, secondo comma della Costituzione, di inviare un messaggio alle Camere. Dodici pagine per denunciare la situazione in cui versano le carceri italiane, invocando l’amnistia e l’indulto, la depenalizzazione di molti reati, la modifica delle norme sulla custodia cautelare. Dalla Rete si sono levate critiche inqualificabili provenienti dal M5S, rimestando nel brodo con cui sono soliti catturare consensi. Il Capo dello Stato, secondo il Movimento 5 stelle, sarebbe responsabile di un salvacondotto per Berlusconi, un do ut des per il suo sostegno al governo. Non è facile dall’insana tribuna del blog mantenere la facoltà di riflettere. I guitti, a volte, nel loro vociare sguaiato, si sbrodolano del loro stesso sugo. Ultima, in ordine di tempo, la cinica affermazione di non aver posto alle elezioni l’abolizione del reato di clandestinità, perché avrebbe ottenuto «percentuali da prefisso telefonico». Napolitano segue la questione carceri dal Natale 2005, quando aderì ad un’iniziativa dei radicali. Da allora, molte le visite nelle prigioni italiane, insieme a dichiarazioni, sollecitazioni e moniti, rimasti inascoltati. Dopo Poggioreale, il messaggio è l’ultimo ponderato atto, sulla realtà carceraria per «porre fine, senza indugio, ad uno stato di cose che pone il nostro Paese in una condizione che ho già definito umiliante sul piano internazionale»; «ci allarma per la sofferenza quotidiana, fino all’impulso di togliersi la vita, di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo». La stringente necessità di modificare la situazione risponde, per Napolitano, non solo ad un «imperativo giuridico e politico, bensì, in pari tempo, è un imperativo morale». Non comprenderlo significa avere «un pensiero fisso» e fregarsene «degli altri problemi del Paese e della gente», non voler sapere «quale tragedia sia quella delle carceri». Questa la secca risposta del Capo dello Stato, che ben aveva messo in conto la strumentalizzazione, accettandone il rischio. Le parole del presidente hanno il carattere dell’urgenza perché sull’Italia «pesa una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo che ci chiede di porre fine in maniera strutturale all’incredibile sovraffollamento carcerario entro il 28 maggio del 2014». Non è facile comprendere cosa sia il carcere, cosa sia diventato, quale ruolo assolva nella realtà odierna. Può aiutare, cercare di entrare, per qualche minuto, dentro quelle mura, contenitive del grave problema sociale e giuridico, a tal punto da scoppiare. Cercare un varco, perché lo sguardo si posi sulle persone che ci vivono dentro. La prevalenza degli imputati in attesa di giudizio rivela «una crisi dell’intero sistema giudiziario», afferma il direttore del carcere di Reggio Calabria, Maria Carmela Longo. «Perché se è vero che la maggior parte dei detenuti è imputata è perché i processi vanno a rilento, è lì la causa del problema. Se questo non si verificasse non ci sarebbe lo stato di sovraffollamento attuale». La casa circondariale reggina è paradigmatica della situazione nazionale, ma ha un “quid” che la rende uno dei luoghi di detenzione tra i più difficili d’Italia: la ‘ndrangheta. La presenza di «persone e situazioni particolarmente osservate dalle forze dell’ordine, dalla magistratura, dalla stampa, dall’opinione pubblica». Per il resto, la popolazione carceraria è costituita da tossicodipendenti, stranieri emigrati, emarginati e soggetti con patologie di natura psicologiche e psichiatriche. «Il carcere è diventato il contenitore di tutto il disagio complessivo sociale. La problematica dell’immigrazione ha il carcere come unica soluzione, così come la tossicodipendenza, così come la povertà», spiega la dottoressa Longo. «C’è uno stato sociale che non offre soluzioni, o offre poco, e si risponde con il carcere perché il carcere è “aperto” a tutti. C’è questa grande commistione che ha importanti ripercussioni sul nostro lavoro e che ci impedisce di tarare sull’individuo un percorso riabilitativo». Quanto mai attuale la necessità di una normativa sugli immigrati. Una riflessione importante ci introduce nella parte più buia e nascosta del carcere, là dove la sofferenza è bruciante: «Lo straniero ha una cultura diversa. È un mondo che entra in un altro mondo. La percezione del dolore è completamente differente. Bisogna farsi carico di queste diversità». Ciò vale anche per i tossicodipendenti, con problematiche personali, sanitarie e comportamentali condizionati dall’astinenza. La convivenza tra queste vite disperate crea tensioni che diventano esplosive, se costrette a vivere in spazi disumani. I gesti di autolesionismo o i tentativi di suicidio sono aumentati. Quale speranza che il dettato costituzionale della pena finalizzata alla rieducazione e alla riabilitazione si realizzi? Rare le realtà, come Laureana di Borrello, in Calabria, chiusa e da poco riaperta, che pur in un contesto territoriale difficile cerca di realizzare un modello “altro”, grazie ad una rete istituzionale, insieme ad associazioni, volontari e alla Chiesa locale. Rari i progetti pilota. Ma sono lì a testimoniare che nello scatafascio italiano qualcosa di positivo può ancora essere realizzato. Anche le parole di un presidente andrebbero davvero prese sul serio. E non fuori tempo massimo, com’è nostra abitudine. Ida Nucera
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