Una scuola che produce inoccupabili

Ha destato rinnovata preoccupazione, più che sorpresa, la notizia diffusa nei giorni scorsi circa il livello assai mediocre delle conoscenze linguistiche e scientifiche degli adulti italiani. Questo dato si aggiunge ai risultati non esaltanti registrati dalle rilevazioni dell’Ocse compiute ogni tre anni con i programmi Pisa (Programme for international student assessment) sugli studenti quindicenni.

Nell’insieme emerge un sistema scolastico e formativo in notevole affanno e, secondo numerosi osservatori, non in grado di reggere le sfide di una società in continua evoluzione tecnologica e in concorrenza con le economie non solo dei Paesi più sviluppati, ma anche di quelli in rapida espansione.

Più preoccupazione che sorpresa perché sulla qualità dell’alfabetismo adulto del nostro Paese sono già da tempo a disposizione altre ricerche (in particolare quelle compiute dal prof. Tullio De Mauro) secondo le quali circa il 30 per cento dei nostri connazionali (e non solo anziani) è in difficoltà a scrivere un breve pensiero, a comprendere un testo molto semplice, per non parlare delle principali operazioni aritmetiche per le quali ormai quasi tutti usano la calcolatrice.

Quest’ultimo rapporto dell’Ocse dedicato alle «capacità fondamentali» della popolazione adulta (16-65 anni) ci colloca al fondo della graduatoria di 24 tra i Paesi interessati all’indagine, tutti i maggiori protagonisti dell’economia mondiale: ultimi per competenze linguistiche e penultimi per quelle scientifiche. Poco importa che a farci compagnia in fondo alla classifica ci siano la Spagna, la Francia e poco sopra gli stessi Stati Uniti: resta l’amarezza di constatare che nonostante l’autocelebrazione della scuola italiana, spesso descritta da noi stessi come la «migliore d’Europa», in realtà mezzo secolo di scuola media unica (la media riformata prese avvio proprio nell’ottobre 1963) non sia servita a rendere più solidi e duraturi gli apprendimenti scolastici.

Al di là di altri dati non positivi (il 25 per cento degli studenti scompare tra le classi elementari e la maturità, l’80 per cento degli iscritti agli istituti secondari dichiara di non amare la scuola) c’è da chiedersi come mai, a fronte di una scolarizzazione che al primo anno delle superiori supera ampiamente il 90 per cento, bastino pochi anni per ritornare nella condizione del semi-analfabeta.

Scuole inefficienti, docenti mediocri, scarsi investimenti da parte dello Stato, programmi vetusti? Interrogativi tutti legittimi e forse, ciascuno con una piccola parte di vero. Dai dati dell’Ocse emergono altri elementi che dovrebbero far riflettere. Non è vero che in Italia si spende poco per la scuola: nonostante i “tagli” degli ultimi anni, la quota pro capite per studente è quasi allineata alla media Ocse (9.100 dollari all’anno contro i 9.300 della media Ocse). Probabilmente si spende male. Neppure si può dire che le classi siano troppo affollate: nelle scuole elementari ci sono in media 11 allievi per ogni maestro e in quelle secondarie 12 iscritti per insegnante (nei Paesi Ocse la media è rispettivamente di 15,8 e di 13,8 alunni per docente).

Naturalmente quando si parla di dati “medi” si finisce per sottovalutare che esistono, specie nelle grandi città, situazioni alquanto precarie, in specie nella fascia dell’obbligo, con classi affollate e alunni bisognosi di interventi specifici come quelli con difficoltà di apprendimento, i portatori di handicap e i ragazzi di recente immigrazione. Ma guardando ai dati in prospettiva generale non si può dire che l’Italia ne esca male. Come mai, torniamo a chiederci, risultati così scadenti?

Ma c’è un altro, e più inquietate, dato nel rapporto Ocse di questi giorni su cui occorre aprire una profonda riflessione: la segnalazione di un battaglione di un milione e mezzo di giovani sotto i 30 anni sprovvisti di qualsiasi «competenza adeguata» per poter entrare nel mondo del lavoro, senza un titolo di studio idoneo a rendersi autosufficienti. Giovani in sostanza che statisticamente rientrano nella categoria degli «in occupabili».

«Le cifre del rapporto Ocse», ha detto il ministro del Lavoro Enrico Giovannini, «ci mostrano quanto siamo indietro in termini di capitale umano e di occupabilità». Qui siamo ben oltre al fenomeno, evocato a suo tempo dal ministro Padoa Schioppa, dei «bamboccioni» o dei ragazzi choosy denunciati più recentemente dalla prof. Fornero. Dove si perdono i giovani destinati a rientrare nelle statistiche dei Neet (Not in education, employment or training)?

Le ricette per intervenire non mancano, ma sono troppo diverse tra loro e quindi politicamente poco o per niente praticabili. Le riforme che sono state tentate in anni andati dai ministri Berlinguer e Moratti sono state affossate (purtroppo) da scelte sindacali miopi che si sono ispirate più al timore di cambiamento espresso da molti insegnanti che alla ragionevole prospettiva di guardare al di là delle posizioni di partito e nell’interesse dei giovani.

Poiché non possiamo rassegnarci ad accettare un milione e mezzo di inoccupati e un italiano su tre semi-analfabeta, occorre esercitare una forte pressione perché la politica torni a porre l’istruzione e la formazione al centro delle decisioni strategiche. Sarebbe fantastico se, superando antichi pregiudizi, il sistema scolastico sapesse superare la logica statalista e aprirsi, come accade in molti altri Paesi, alla piena valorizzazione delle istituzioni non statali che in molti ambiti (come nel caso della formazione professionale) hanno molto da insegnare. Purtroppo gli ultimi segnali ministeriali (si veda il “decreto scuola” in discussione in questi giorni) non vanno in questa direzione.

Ma per essere sinceri non tutte le responsabilità ricadono sulla politica: occorrerebbe che la scuola fosse di nuovo considerata dall’opinione pubblica, come accadeva fino a qualche decennio orsono, un’istituzione rispettata, a partire dalla professione docente, spesso soggetta a una precariato logorante. Oggi la figura dell’insegnante non gode di prestigio sociale. E spesso l’inseguimento della cattedra è l’esito di una scelta di ripiego e non di una vocazione personale.

Giorgio Chiosso

 



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