Maestra nel racconto breve

Il premio Nobel 2013 per la letteratura è stato assegnato con pieno merito alla scrittrice canadese Alice Munro, «maestra del racconto breve contemporaneo», come recita la motivazione. Finalmente un riconoscimento alla qualità della scrittura e non all’impegno civile o a ragioni geopolitiche, come è accaduto tante altre volte ai giurati dell’accademia di Stoccolma.

Ottantadue anni, minuta e fragile, elegante, con un pizzico di civetteria per i cappellini da film anni Trenta e la montatura degli occhiali, argentata come i suoi capelli, schiva e appartata, lontana dallo star system, la Munro è sempre vissuta nell’Ontario, sulle rive del lago Huron.

Alice Laidlaw, nata nel 1931 a Wingham da una famiglia di origine scozzese di severa religione presbiteriana, ha raccontato la storia dei suoi antenati nel suo libro più autobiografico, «La vista da Castle Rock» (2006). Pastori che vivevano nelle Highlands all’inizio del Settecento e sono diventati pionieri emigrando in Canada nel 1818. Uomini taciturni e donne determinate, fedeli all’etica del sacrificio, che hanno dissodato e disboscato terreni impervi, lottando contro la povertà, e hanno lasciato nel sangue della loro discendente qualcosa di ruvido e arcaico, come in certi personaggi di Scott e Stevenson.

Il padre faceva l’allevatore di volpi argentate per i turisti americani e la madre, maestra, era una donna ambiziosa e oppressiva. A vent’anni Alice se ne va di casa e sposa Jim Munro, abbandona l’università senza laurearsi e nel 1963 apre una libreria a Victoria col marito. Non solo il paesaggio in cui vive, ma anche il suo nome ha il profumo delle storie di Fenimore Cooper: ne «L’ultimo dei mohicani» Alice è una delle due figlie del capitano Munro, comandante delle truppe inglesi nella guerra anglo-francese per la conquista del Canada.

La Munro, che ha amato «Cime tempestose» di Emily Brontë e «Sette storie gotiche» di Karen Blixen, ha cominciato a scrivere sin da giovane nonostante lo scarso tempo da dedicare alla scrittura, dovendo allevare tre figlie e accudire la madre malata di Parkinson. Forse anche per questo non ha mai scritto romanzi, ma soltanto racconti, oltre un centinaio in mezzo secolo, raccolti in tredici volumi, metà dei quali riuniti in un Meridiano Mondadori uscito qualche mese fa a cura di Marisa Caramella.

La scrittrice canadese si è spesso interrogata sul perché non riuscisse a scrivere romanzi: «E’ molto difficile non abbandonarsi alla sensazione di aver lasciato dei frammenti se quello che lasci sono solo racconti sparsi […]. La mia vita è piena di realtà sconnesse e le vedo nella vita degli altri. E’ stato uno dei problemi del perché non sono riuscita a scrivere romanzi, non sono mai riuscita ad avere una visione complessiva delle cose nel loro insieme».

I racconti della Munro si inseriscono perfettamente nella tradizione della short story nordamericana, da Hemingway a O.Henry, da Cheever a Carver, soprattutto in quella delle scrittrici, da Flannery O’Connor a Carson McCullers a Willa Cather, che raccontano le piccole città, la povera gente, le intense emozioni. Il suo libro d’esordio è «La danza delle ombre felici» (1968), tradotto in italiano da La Tartaruga nel 1994 e tra pochi giorni in libreria per Einaudi nella meravigliosa traduzione di Susanna Basso, che ha tradotto quasi tutti i libri precedenti per la casa editrice torinese.

La fortuna italiana della Munro è piuttosto recente, risale soprattutto all’ultimo decennio, anche se il suo primo libro tradotto da noi, «Il percorso dell’amore», uscì nel 1989 da Serra e Riva. Questo si spiega con il fatto che, secondo gli editori italiani, il racconto non “tira”, non piace al pubblico, nonostante l’Italia abbia avuto nei secoli una grande tradizione novellistica, da Boccaccio a Pirandello, da Buzzati a Calvino. E’ molto difficile che da noi uno scrittore esordisca con un libro di racconti, perché gli editori sono molto restii a pubblicare un autore se non si è già affermato con qualche romanzo.

La Munro racconta storie circoscritte all’ambiente rurale, che si svolgono in case di campagna abitate da donne, madri, mogli, figlie, zie, cugine, impegnate in faccende domestiche o immerse nella vita quotidiana, tra mobili, tappeti, libri, piatti, letti, tavolini. Gli uomini hanno ruoli secondari e sono quasi sempre persone squallide e violente.

Il suo racconto sembra elementare, talvolta banale, ma non lo è mai, perché vira improvvisamente verso conclusioni inaspettate, spesso di feroce crudeltà. Inoltre, viene usata spesso la tecnica dello slittamento spazio-temporale, dell’omissione e dell’elusione, dove il non detto è più significativo di ciò che appare.

La dote più originale della Munro, secondo Melania Mazzucco, è la «spezzatura», esaltata dal Castiglione ne «Il cortegiano», l’uomo di corte del Rinascimento, cioè la capacità di nascondere un’arte sorvegliatissima dietro un’apparente semplicità. Il suo stile è asciutto, preciso, controllato, senza vezzi, trasparente, di cristallina chiarezza. Dietro ogni frase, ogni parola, c’è un lavoro minuzioso, quasi maniacale, ma il lettore non lo avverte, e qui sta il suo immenso talento. Ogni raccolta di racconti, non più di sette o otto per volume, le richiede tre o quattro anni di lavoro.

Le sue «storie inventate dal vero», per riprendere l’efficace definizione di Marisa Caramella, sono costruite come nei secoli passati si costruivano le case, solide e robuste, o si intessevano i tappeti, intrecciando voci, gesti, sguardi, parole, silenzi, sentimenti d’amore, di pietà, di odio e di rabbia covati a lungo negli anni. Ciò che affiora è il gioco dei ruoli sociali, la lotta per la sopravvivenza, per l’affermazione di sé, la competizione tra madri e figlie, tra mariti e mogli, tra due vicini di casa.

La Munro afferma di «non costruire storie», ma di «acciuffare con la mano qualcosa nell’aria». Le basta un dettaglio, un oggetto qualunque, un vestito stazzonato, una tartina all’uvetta, un fiore ricamato sul tovagliolo, per rivelare il senso delle storie aprendo la strada a rivelazioni imprevedibili. Per questo può essere definita una grande scrittrice delle piccole cose.

Massimo Romano

 



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