![]() Accesso utente |
Il Nobel un po' amaroTutto come previsto, anche troppo: Peter Higgs e François Englert hanno conquistato il premio Nobel 2013 per la Fisica per aver previsto nel lontano 1964 l’esistenza di quella che è stata poi definita, loro malgrado, la “particella di Dio” (una trovata editoriale per vendere il libro omonimo di Leon Lederman). Meno folcloristicamente, si tratta di un bosone, cioè di una particella parente del fotone e delle particelle W e Z scoperte da Carlo Rubbia. I bosoni sono particelle mediatrici di forze fondamentali della natura. Il fotone è la particella che si riferisce alla forza elettromagnetica (onde radio, luce visibile, ultravioletto, raggi X, raggi gamma). W e Z mediano la forza elettrodebole. Il bosone previsto da Higgs ed Englert fa parte della stessa famiglia, ma è ancora più rilevante perché con il suo campo conferisce una massa a tutte le altre particelle e quindi fa esistere l’universo così come lo conosciamo. E’ una particella doppiamente importante: perché completa il Modello Standard del microcosmo subnucleare e perché esercitò la sua azione decisiva un attimo dopo il Big Bang, sicché ha un grande interesse anche per la cosmologia. Qui finisce la notizia, e qui può incominciare qualche osservazione critica. François Englert e Peter Higgs sono due attempati fisici teorici. Hanno 83 e 84 anni. Ai più giovani fisici sperimentali del Cern, che con i due giganteschi esperimenti Atlas e Cms nel 2012 trovarono la particella tanto attesa, è arrivata soltanto un barlume di gloria riflessa, la (scarsa) visibilità indiretta di una citazione del Cern durante l’annuncio dei vincitori. In altro modo andarono le cose con le particelle W e Z, che nel 1979 diedero il Nobel a Salam, Glashow e Weinberg per la teoria, e poi nel 1984 a Carlo Rubbia e Simon van der Meer per la scoperta sperimentale (anch’essa realizzata al Cern di Ginevra parecchi anni dopo la previsione teorica). Il meccanismo del premio Nobel ha le sue strettoie: può laureare al massimo tre persone. La regola non è scritta in modo esplicito nel testamento di Alfred Nobel, ma risulta da un tradizione consolidatasi nel corso di un secolo. Non c‘era posto, quindi, neanche per i due fisici sperimentali che al Cern hanno guidato gli esperimenti Atlas e Cms, rispettivamente Fabiola Gianotti e Joseph Incandela, ai quali dovremmo aggiungere almeno Guido Tonelli, al quale va riconosciuto il fondamentale ruolo svolto nella realizzazione dell’esperimento Cms, Sergio Bertolucci, direttore della ricerca al Cern, e Luciano Maiani, che del Cern fu direttore generale quando partì la costruzione della macchina Lhc. Ci sarebbe stato spazio, invece, per Robert Brout, il terzo fisico teorico che previde la particella indipendentemente da Higgs ed Englert. Ma Brout non c’è più. Stanco di aspettare, se n’è andato il 3 maggio del 2011, a 83 anni. Il Nobel si vince anche con la longevità, Brout partiva svantaggiato dall’anagrafe. C’è dunque un po’ di amarezza per il Cern. Questo Nobel non sarebbe stato possibile senza la gigantesca macchina Lhc (Large Hadron Collider) del Cern, un anello di magneti superconduttori lungo 27 chilometri per far scontrare protoni contro protoni a energie mai raggiunte prima. Non sarebbe stato possibile senza che due esperimenti indipendenti fornissero la stessa evidenza della ”particella di Dio” o «bosone di Higgs», che d’ora in poi dovremmo per correttezza chiamare «particella di Englert-Higgs-Brout». Questo Nobel, infine, non sarebbe stato possibile, se i cittadini europei che pagano le tasse non avessero finanziato il Cern con 8 miliardi di euro. Anche per loro, anche per noi, c’è un po’ di delusione. Una cosa bisogna ancora aggiungere. I leader e portavoce degli esperimenti Atlas e Cms, Fabiola Gianotti e Joseph Incandela, insieme con Guido Tonelli che Cms ha guidato per anni, avrebbero ben meritato la loro parte di premio. Ma non basta. La Gianotti, Incandela e Tonelli hanno alle loro spalle quasi diecimila fisici, ingeneri e tecnici senza i quali non saremmo qui a parlare della scoperta del celebre bosone. E’ la popolazione di una piccola città. Oggi la fisica delle particelle si fa così, o non si fa. Le sue scoperte possono essere soltanto collettive, non individuali, benché poi ci sia sempre qualcuno che guida il gruppo con una visione d’insieme del progetto. E’ lontano il tempo dei primi laureati Nobel, che potevano permettersi di essere scienziati solitari ben identificabili con una scoperta o una invenzione di interesse pratico per l’umanità: Roentgen con la scoperta dei raggi X e l’invenzione della radiografia, Marconi con la telegrafia senza fili, Golgi con la colorazione che permise l’osservazione dei neuroni e così via. Persino sul piano teorico le cose non sono così semplici e chiare come la giuria di Stoccolma sembra certificare con il premio a Englert e Higgs. Nel caso della “particella di Dio”, infatti, se mater semper certa, per ciò che riguarda i padri le cose sono più complicate. Il meccanismo del campo di Higgs fu immaginato nel 1964 dal fisico inglese e, indipendentemente, dai belgi François Englert e Robert Brout. Entrambi però avevano sviluppato un’intuizione di Philip Anderson, e a stabilire il meccanismo che genera il campo di Higgs contribuirono anche Gerald Guralnik e, Carl Hagen e Tom Kibble. Questi nomi sono ricordati alla pari nei testi di Fisica e tutti insieme danno il nome al campo del più famoso dei bosoni, ma non sono mai arrivati al grande pubblico. Robert Brout, come accennato, ha tolto il disturbo il 3 maggio 2011, semplificando la vita alla giuria del Nobel. Era nato nel 1928. Oggi avrebbe dunque qualche anno di più di Englert e di Higgs. Per vincere il Nobel non basta essere geniali, bisogna vivere più a lungo dei diretti competitori. Ma Kibble, coetaneo di Englert, è ancora sulla breccia. Così pure Carl Hagen, classe 1937. Si potrebbe pensare che ci sia una grande distanza di “qualità” a lasciarli indietro rispetto ai premiati, ma non è così. Chi si è preoccupato di andare a verificare le credenziali dei vincitori sa che Higgs ha al proprio attivo soltanto una dozzina di pubblicazioni significative, con una produzione non solo modesta, ma anche assai discontinua e dal basso impact factor. Engler se la passa meglio, con una quarantina di pubblicazioni notevoli, ma nemmeno lui ha un curriculum travolgente. E’ ben vero che soltanto il lavoro di Higgs citava esplicitamente, in una nota finale del suo articolo del 1964, la possibile esistenza di un nuovo bosone. Tuttavia è altrettanto vero che Higgs aggiunse quella nota dopo che una prima stesura era stata rifiutata dalla rivista «Physics Letters», e la aggiunse per proporre poi lo stesso articolo, opportunamente revisionato, alla rivista «Physical Review Letters», che infine lo pubblicò. Tre anni dopo, nel 1967, la teoria del campo di Higgs fu integrata nel Modello Standard delle particelle elementari per completare l’interpretazione delle interazioni elettro-deboli, opera svolta indipendentemente dai già citati Abdus Salam e Steven Weinberg. In conclusione, due considerazioni. La prima: Alfred Nobel nell’istituire con il suo testamento il Premio volle orientarlo verso obiettivi utili all’umanità, né poteva essere diversamente, essendo egli un chimico “di cucina” che aveva fatto i soldi con la dinamite aggiungendo farina fossile alla nitroglicerina, già inventata da Ascanio Sobrero (per applicarla alla cura di malanni cardiaci). Con il tempo, però, molti Nobel sono stati assegnati anche a scoperte “astratte”, di conoscenza pura o scienza fondamentale che dir si voglia, e la Fisica è la disciplina che più ha beneficiato di questo orientamento in parte divergente dalle volontà testamentarie. Basta pensare a Salam, Glashow, Weinberg, Rubbia. Con Englert e Higgs si è avuta una clamorosa conferma. Questa è una tendenza positiva, perché riconosce davanti al mondo intero che la conoscenza pura e disinteressata è più importante di qualsiasi invenzione o applicazione pratica, per il semplice motivo che queste non sono possibili senza quella. La seconda considerazione si riferisce alla consuetudine che fissa in un massimo di tre il numero dei premiabili e al fatto che deve trattarsi di persone fisiche. Forse sarebbe opportuno prendere atto delle diverse caratteristiche della ricerca contemporanea rispetto a quella d’inizio Novecento, magari aprendo ad un premio conferito a una intera istituzione, come il Cern. E’ già successo con il Nobel per la Pace. Non dovrebbe essere un trauma estendere questo uso a una scienza collettiva e internazionale come la Fisica sperimentale delle alte energie. Al Cern e all’Infn (Istituto nazionale di fisica nucleare) tutti hanno fatto buon viso a cattiva sorte. Larghi sorrisi e parole di soddisfazione. Ma, sotto, un po’ di delusione c’è stata. Piero Bianucci
|