Ma il fascismo non fu minoranza

Il 1943 è stato, senza dubbio, uno degli anni più cruciali della nostra storia. Forse quello che, più di tutti, ha segnato una svolta tra un prima e dopo. Si cominciò in gennaio con la ritirata di Russia e la tragedia degli alpini dell'Armir.

A marzo ci furono nel Nord Italia i primi scioperi che segnarono il definitivo distacco del mondo del lavoro dal regime. In maggio cadde il fronte tunisino e l’Italia dovette abbandonare l’ultimo lembo d’Africa. «Ritorneremo!», titolavano retoricamente i principali quotidiani, ma i più, compresi i fascisti più avveduti, ben sapevano che ciò non sarebbe accaduto. La guerra era ormai persa e tra breve anche la nostra penisola sarebbe stata invasa. Dopo gli sbarchi angloamericani in Sicilia, si giunse ad una resa dei conti anche dentro al regime. Il Gran Consiglio, convocato il 25 luglio, sfiduciò Mussolini e il Re, a quel punto, lo sostituì con Badoglio.

Cominciò così la transizione che ci portò all'armistizio: quarantacinque giorni nei quali l'Italia si trovò in mezzo al guado: ancora alleata della Germania, ma ormai prossima a deporre le armi e a passare nel campo delle democrazie. Arrivò quindi l’8 settembre, giornata in cui fu reso pubblico l’armistizio, firmato in realtà cinque giorni prima a Cassibile, presso Siracusa; una delle poche date nella storia italiana ad essere immediatamente definita senza bisogno di altre specificazioni. Quelle giornate videro lo squagliamento dei poteri costituiti. Il Re abbandonò precipitosamente Roma con il governo, fuggì a Pescara per poi imbarcarsi, nottetempo, per Brindisi. La catena dei comandi venne a saltare e l'esercito, privo di ordini, sbandò, rimanendo alla mercè della reazione tedesca.

Proprio sulla fatidica data dell'8 settembre è incentrato l’ultimo libro di Gianni Oliva, «L’Italia del silenzio» (Le Scie–Mondadori), presentato nei giorni scorsi a Torino alla fondazione Donat Cattin, con la partecipazione degli storici Bartolo Gariglio e Claudio Dellavalle, presidente del Museo della Resistenza. Oliva sostiene la tesi che intorno a quanto accadde in quelle giornate convulse vi fu una specie di rimozione collettiva su quello che era stato il fascismo e il consenso che esso aveva avuto. Questa vulgata considera l'8 settembre come l'inizio di una sorta di “chiamata alle armi” contro un regime che aveva oppresso gli italiani, con un inequivocabile patriottismo che avrebbe, sin da subito, trovato la sua prospettiva di riscossa.

In realtà, afferma l'autore, non fu così, né, ragionevolmente, poteva esserlo. Prima che una ferma volontà di resistere ai tedeschi vi fu paura della loro reazione e molta gente cercò rifugio in montagna nella confusione più totale. E del resto come poteva essere diverso? D'improvviso diventammo alleati degli americani e, di colpo, i tedeschi, con cui ci eravamo battuti fianco a fianco per tre anni, divennero i nostri nemici. Naturale che si determinasse un forte disorientamento, cui contribuì anche il comunicato del governo Badoglio, nel ricordare che i nostri soldati avrebbero reagito ad ogni attacco da qualsiasi parte provenisse. Senza ulteriori spiegazioni. Una situazione efficacemente descritta in «Tutti a casa», il famoso film di Dino Risi nel quale il protagonista, un tenente impersonato da un Alberto Sordi al meglio della sua carriera, telefona allarmato al comando: «Accade una cosa incredibile, i tedeschi si sono alleati con gli americani».

Oliva ritiene che vi sia un equivoco da superare, qualcosa su cui è calato un certo silenzio, uno strano oblio. «Ci viene raccontato», spiega, «che, nel 1945, l'Italia si sia liberata da sola e che la Resistenza, con l'indubbio valore mostrato dai suoi protagonisti, basti a farci entrare nel novero dei vincitori. La verità è che siamo un Paese sconfitto, come mostra il trattato di pace del 1947 che impone la cessione dell'Istria alla Jugoslavia e di Briga e Tenda alla Francia, ma per suffragare questa vittoria immaginaria si è iniziato a dire che la Resistenza fosse un movimento di massa, mentre ne fu artefice una minoranza; poi si è addossata ogni responsabilità della guerra sul Duce e sul Re, come se per un ventennio gli italiani fossero stati prigionieri di un gruppo di potere totalmente privo di qualunque seguito popolare. Un'operazione che ha permesso di assolvere la nostra classe dirigente, evitandole di dover fare i conti col passato».

«La realtà», prosegue Oliva, «è che essa ha pienamente sostenuto l'Italia littoria. Si ricordano, giustamente, i dodici professori che nel 1931 rifiutarono di giurare fedeltà al regime, ma si sorvola sugli altri 1.836 che acconsentirono, non necessariamente per mera costrizione. In definitiva, aver addossato ogni colpa al fascismo e alla monarchia ha permesso di riciclare un Paese ove nessuno era mai stato fascista. I soli epigoni del littorio diventarono i giovani che si batterono a fianco dell'ultimo Mussolini, mentre i profittatori di vent'anni di regime, che avevano ricevuto vantaggi e prebende, si mimetizzarono impunemente nel nuovo corso».

Questa tesi contiene parecchie verità, ma forse non tiene conto che riciclaggio e rimozione furono gli effetti di una scelta necessaria: l'amnistia, voluta dall'allora ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, proprio per pacificare l'Italia e cominciare, tutti insieme, una nuova vita democratica. E' invece assodato il consenso di massa ricevuto dal fascismo, anche se, precisa Della valle, «va pur sempre ricordata l'incessante propaganda, a senso unico, cui vennero sottoposti gli italiani per vent'anni. Il regime cercò di coinvolgere soprattutto i giovani e l'unico ostacolo alla loro completa fascistizzazione rimane la Chiesa, che contesta il monopolio educativo delle camicie nere».

Poi è lo stesso corso della guerra a dare inevitabilmente una scossa all'impalcatura fascista. A partire dalla metà del 1942 le incursioni aeree iniziarono a prendere di mira obiettivi civili per fiaccare il morale della popolazione. Di fronte all'evidente incapacità del regime nell'organizzare un'efficace protezione del Paese e ai razionamenti dei viveri iniziò quel malcontento sempre più generalizzato che sfociò negli scioperi della primavera del '43 e poi nel crollo del fascismo.

Non tutto è però perduto, nemmeno nei momenti di peggior sbandamento. «Già il 9 settembre», sottolinea Dellavalle, «in una Roma abbandonata dal monarca, assume piena responsabilità il Cln, il Comitato di liberazione nazionale, in cui si riconoscono tutti i partiti antifascisti con una nuova classe dirigente, i cui ideali vennero poi trasfusi nelle istituzioni democratiche e nella Costituzione. Per questo nel dopoguerra possiamo considerarci, nello stesso tempo, sconfitti e vincitori. L'essere vincitori non va certamente collegato alle vicende belliche, ma nell’esser riusciti a superare un’esperienza tragica che poteva segnare la fine della nostra convivenza civile e della nostra sovranità nazionale».

«Dalla Resistenza», evidenzia Gariglio, «derivò anche un’idea di patria certamente diversa da quella del passato regime fascista. Un ideale alimentato dal riscatto dell’Italia del lavoro e della democrazia, valori poi trasposti poi nella Costituzione».

In questo senso può esser detto che la Resistenza fu davvero il compimento del Risorgimento, poiché la nuova Italia democratica che nacque dalla guerra di Liberazione permise l'inserimento nella vita politica di quei ceti operai e contadini che, sino ad allora, ne erano rimasti ai margini. Forse, se c'è stato un silenzio, potrebbe esser quello della borghesia. La classe che più si identificò col fascismo si trovò come spiazzata dalle vicende storiche e non riuscì a definire una sua chiara strategia, come mostrano il mancato decollo del Partito liberale e l'appoggio, sempre cauto e diffidente, concesso alla Democrazia cristiana. Quando oggi si invoca la nascita di una moderna destra conservatrice, capace di afflato europeo e di senso civico, forse si dovrebbe pensare anche ad una certa incapacità della nostra borghesia di essere vera classe dirigente. E chissà che molte delle convulsioni che l'Italia visse nel 1943, e in quel fatidico 8 settembre, non abbiano in questo la loro vera spiegazione.

Aldo Novellini

 



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