Una stanza per l'ospite non voluto

L’immagine è suggestiva e sembra convincente. Nasce in ambiente leghista. Per spiegare l’impossibilità di accogliere gli immigrati che sbarcano sulle nostre coste, la giornalista della «Padania» ha portato questo esempio. Se nella tua casa c’è una stanza per l‘ospite, puoi metterla a disposizione di chi bussa alla tua porta. Puoi ospitare tre, quattro, forse cinque persone, ma non di più. Se ne fai entrare altre, sarai poi tu a dover uscire da casa tua. Il ragionamento sembra filare liscio senza possibilità di obiezione. Invece vediamo che se le cose funzionano nell’immagine, non funzionano invece nella realtà.

Anzitutto perché i demografi e gli economisti fanno sapere che senza l’immigrazione la società italiana, già demograficamente invecchiata, e la sua economia non reggono. Per cui l’immagine portata dalla giornalista è falsa. L’immagine che rappresenta la realtà non è quella di una casa con una stanza per l’ospite, ma di un vecchio maniero piuttosto fatiscente che può salvarsi introducendo persone che aiutano a farla stare in piedi.

In secondo luogo, perché si dovrebbe spiegare perché alcuni hanno una casa e altri, quelli che chiamiamo «immigrati», non l’hanno, pur avendone diritto in quanto esseri umani. Avere un riparo dalle intemperie e un luogo dove abitare non è un privilegio di pochi, ma un diritto di tutti. Perché i disperati che approdano alle nostre terre benestanti dovrebbero esserne esclusi? E più genericamente: perché l’umanità deve essere divisa in ricchi e poveri, in chi muore per indigestione e chi muore per fame?

La terra è di tutti. Sappiamo molto bene che si possono portare mille ragioni per spiegare questa sperequazione, ed esistono mille ragionamenti per dimostrare che non sempre il dover essere si concilia con l’essere. L’onorevole Cicchetto, dopo la visita del Papa a Lampedusa, aveva detto lapidariamente che altro è predicare, altro è governare, cioè altro è proporre l’optimum e altro e fare i conti con la realtà. E’ vero. Però, e qui sta la questione, altro è impostare un problema e la sua soluzione rimanendo in un ambito chiuso con presupposti rigidi e “viziati”, altro è impostarlo e tentare di risolverlo con onestà in una dimensione di apertura all’umanità e alla sostanza dell’essere umano. Non si può partire dalla constatazione che esistono popoli e persone ricche, e popoli e persone povere. Questo non è la constatazione di una realtà, ma di un disordine della realtà. E non si può pensare di organizzare la convivenza degli uomini partendo da questo presupposto. Bisogna partire dalla constatazione che tutti gli uomini hanno gli stessi diritti. E se si scopre che l’umanità per complesse ragioni si divide in ricchi e poveri, il primo atteggiamento non è quello di negare questo “disordine”, ma è quello di cercare di capire perché si è formata e stabilizzata questa distinzione oggettivamente ingiusta, e come è possibile rimuoverla.

L’impegno di tutti. E’ evidente che questa operazione non può essere fatta dal singolo cittadino e neppure da una singola nazione, ma è necessario il coinvolgimento di tutti i popoli, ricchi e poveri. Ricordo l’affermazione di un missionario che lavora in Africa: «I popoli ricchi dell’Europa dovranno restituire poco alla volta agli africani le ricchezze che hanno rapinato e continuano a rapinare nel loro continente». Il benessere degli europei è frutto del loro ingegno, ma è frutto anche delle ricchezze che hanno rapinato nei diversi continenti, dall’America, all’Africa, all’Asia. Ma lasciando da parte il ragionamento della restituzione, resta il fatto che l’uomo se vuole restare all’altezza della sua dignità di essere razionale non può accettare che il diritto a vivere e a vivere in modo dignitoso sia possibile solo ad alcuni e negato ad altri. La proprietà privata è uno strumento che deve servire a distribuire meglio le ricchezze tra tutti e non lo strumento che causa divisioni, creando ricchi e poveri e approfondendo il solco tra di loro.

Si fanno patti internazionali per assicurare la pace, per evitare le guerre e per superare le crisi economiche, ma il primo patto per scongiurare tutti questi mali dovrebbe essere quello di eliminare la distinzione più esplosiva, quella che divide gli uomini in ricchi e poveri. Finchè esisterà questa ingiustizia ci saranno sempre problemi irrisolti. E tra questi, il problema delle immigrazioni dei paesi poveri verso quelli ricchi. Opus justitiae pax, la pace è il risultato della giustizia, diceva sant’Agostino. Non si può sperare di pacificare l’umanità e di risolvere il problema dell’immigrazione se non si riporta giustizia in tutti i rapporti umani. A iniziare dalla propria terra ed estendendo la giustizia a tutte le terre.

In poche parole: per trovare la soluzione dobbiamo chiederci cosa vogliamo. Se vogliamo star bene e tutelare i nostri interessi che chiamiamo «diritti», allora possiamo accogliere un certo numero di immigrati, quel numero che non crea difficoltà, anzi è utile a noi. Ma è una soluzione che in realtà non risolve nulla, perché i poveri continueranno a premere alle frontiere dei ricchi. Se invece vogliamo assumerci la responsabilità anche dei nostri fratelli allora dobbiamo andare alla radice dei mali e creare un nuovo ordine internazionale che crei le condizioni perché tutti abbiano il necessario per vivere e per svilupparsi da persone umane. Il richiamo di papa Francesco orienta la ricerca della soluzione in questa direzione.

Cosa possiamo fare? Paolo VI si chiedeva cosa le singole persone possono fare per eliminare la fame nel mondo. Ognuno di noi si sente piccolo e impotente per risolvere problemi che affliggono l’umanità. Il Pontefice rispondeva che il primo passo per risolvere un problema è quello di rendersi conto che il problema esiste. Finchè tutti noi non ci rendiamo conto che ancora oggi la gente muore di fame, tutto resta come prima. Ma se ognuno di noi matura in sé questa consapevolezza, poco alla volta si forma una opinione pubblica che obbliga i responsabili della cosa pubblica a fare proprio il problema e muoversi per risolverlo.

Bene hanno fatto alcuni quotidiani a pubblicare le fotografie degli immigrati morti nel naufragio di Lampedusa. Abbiamo visto il volto di persone che sono fidanzati, amici, membri di una famiglia, singoli. Guardando quei volti abbiamo immaginato la loro vita, le loro speranze, la sofferenza della loro agonia, il pianto dei loro familiari e di chi hanno lasciato. Non sono più numeri o sagome senza volto. Sono diventate persone vive con una vita spezzata nel tentativo di trovare finalmente le condizioni per una vita dignitosa. E abbiamo pensato che Dio li avrà accolti tra le sue braccia, perché non c’erano per loro braccia umane per accoglierli. E forse un giorno li ritroveremo come il “povero Lazzaro”. E non potremo più fare niente.

Giordano Muraro o.p.

 



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