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Vergogna e silenzioNoi qui, loro là. Noi qui con parole usurate, retoriche, vuote. Con le nostre sicurezze. Loro là, in fondo al mare dell’isola dei Conigli, con i loro corpi gonfi di acqua, sul viso la disperazione dell’ultimo grido. Dopo una viaggio al buio in cui la morte gli stava addosso e ogni momento poteva essere l’ultimo. Noi qui a voltare pagina con la solita fretta, dopo la prima commozione, incalzati dai tanti problemi privati e pubblici. Loro là, sigillati in una storia che non conosceremo mai. Senza un volto, senza un nome. Per i cadaveri ripescati, un numero e una presunzione di età: maschio, femmina, forse vent’anni, forse dieci, forse trenta. Per i più piccoli una quasi certezza: un anno, pochi mesi, la bambina con un pantaloncino e le scarpe di vernice, forse un anno mezzo. Il batuffolo nero con le manine stretta a pugno come i neonati da poco, forse neppure tre mesi. Noi qui ad immaginare un futuro, loro senza più futuro. Noi qui, loro là. Solo per il sorteggio misterioso della vita e dei destini umani. Ma potrebbe essere esattamente il contrario: loro qui, noi là. Forse dobbiamo ricominciare da questa possibilità, che va al di là di miopi valutazioni e cerca di immergersi nel comune destino dell’umanità, stretta fra la vita e la morte, per entrare con consapevolezza in quella «vergogna» con la quale papa Francesco ha stigmatizzato il dramma dell’ecatombe di Lampedusa. Per piangere lacrime vere, come ha ancora detto Francesco, con il viso segnato da una profonda sofferenza, lui che forse aveva sperato che qualcosa cambiasse, dopo la sua visita al più grande cimitero marino dei nostri tempi. «Non ho più voglia di parlare, di esprimere giudizi, proporre soluzioni. Adesso credo che l’unica soluzione al male del mondo sia il silenzio, accompagnato dal nostro impegno serio e costante nel servizio di chi soffre. Tutti oggi parlano. Serve solo a calmare i sensi di colpa che il silenzio genera nella nostra coscienza». Sono parole di fratel Beppe Gaido. Nel suo ospedale di Charia, in Africa, si trova ad affrontare ogni giorno drammi che, in misura e modi diversi, hanno un filo rosso, di sangue e di disperazione, con l’olocausto di milioni di persone che fuggono dalle loro città in guerra, dalla fame, dall’indigenza che provoca malattie e morte, dalle persecuzioni, dalle torture, dalle esecuzioni di massa Sono parole che cadono come sassi sulle dichiarazioni inutili di politici, di rappresentanti delle istituzioni, di promesse mai mantenute, ogni qual volta le carrette del mare si trasformano in bare. E arrivano sulle spiagge i cadaveri delle vittime. Come a Scicli, tredici migranti annegati, buttati giù dal barcone a cinghiate dagli scafisti. Come a Lampedusa, un dramma di vastità mai prima verificatasi. «Oggi c’è rabbia e sconforto, ma quello che serve è un profondo silenzio. Meglio il silenzio, se non siamo capaci di dare risposte concrete. Mentre lì si discute, qui si muore», ha detto don Stefano Nastasi, il prete che aveva invitato papa Francesco, durante la fiaccolata nelle strade dell’isola, piena di dolore per questa ultima immane tragedia, schiacciata e abbandonata sotto il peso dell’indifferenza. Ma questo silenzio è un silenzio che parla. E’ abitato da voci, volti, storie. Quelle dei 152 superstiti con un futuro incerto, che adesso sono stati ammassati nel Centro di raccolta temporanea che ha trecento posti e più di un migliaio di ospiti. Quelle che affiorano nelle tenere fotografie raccolte in mare, che si erano portate appresso gli eritrei, i somali, i siriani per continuare ad avere un legame con le famiglie lasciate nei loro Paesi. Nella speranza di poter migliorare la propria sorte e quella dei loro familiari. Queste presenze silenziose ci chiedono una fraternità attiva e partecipe per quella solidarietà universale che è il cemento indispensabile per tutti salvarci o tutti perderci. Ci chiedono di entrare nelle loro vite e nel loro martirio per spalancare gli orizzonti delle nostre vite quotidiane e non tenerle chiuse negli egoismi e nell’indifferenza. Un’esistenza è piena, ricca e felice soltanto se si apre all’altro e si realizza nell’altro. Nella buona e nella cattiva sorte. Prima di essere un imperativo etico, prima di essere per i credenti un comandamento, è una conoscenza sperimentata da chi sceglie questa apertura. «Vorrei che in me, con me risalissero l’abisso, potessero respirare all’aria aperta anche questi nuovi morti. Perché raccontare non può essere una resurrezione? Perché le storie che scriveremo domani sui giornali non possono far rivivere il loro intimo, le vite segrete dei loro cuori?», ha scritto Domenico Quirico , inviato dal suo giornale a Lampedusa. Due anni fa, salì a Zarzis, in Tunisia, su uno di questi barconi «per capire, per tentare di capire» e percorse la rotta verso la Sicilia con centodieci migranti. Venti ore di mare e poi il naufragio con un fortunato epilogo. Allora, solo allora, ha capito il calvario dei morti e dei sopravvissuti «che durante un’intera vita hanno contemplato la morte, immersi fin dall’infanzia in quella voragine». «Ama il prossimo tuo come te stesso». Vale per i credenti e per chi non crede. E’ un valore che appartiene al bene comune, alimentato da quell’amore gratuito e partecipe che sempre di più si rivela l’unica via di salvezza per un pianeta avviato al suicidio. Anche perché il primo prossimo siamo noi stessi, da amare nel modo giusto che è quello di raggiungere una pienezza di vita che sola si realizza uscendo dai nostri limiti e confini per camminare con gli altri e in mezzo agli altri. Per vivere le loro vite. «Tutti i migranti che si mettono in viaggio alla nostra volta, e pagano caro il biglietto per la morte o la vita, tutti, sono il nostro prossimo: che siano buoni o cattivi, che vediamo di buon occhio o furibondo la questione dell’immigrazione. Per questo è così odiosa, oltre che “criminale”, la politica dei “respingimenti”», ha scritto Adriano Sofri. Speriamo che dopo questa ultima tragedia sia rivista la legge Bossi-Fini, che ha provocato tanti drammi e ha contribuito anche a quest’ultima ecatombe. Che a Bruxelles ci si convinca che Lampedusa è la porta estrema meridionale dell’Europa. E’ totalmente Europa. «Questo dramma non deve essere affrontato da soli, ma insieme all’Europa», ha detto il ministro per l’integrazione Cécile Kyenge. A questo il nostro governo dovrà lavorare concretamente perché soltanto allora potrà parlare. Ma prima di tutto qualcosa deve cambiare in ciascuno di noi. Lampedusa è stata candidata al Nobel per la pace, in quanto «isola dove si svolge ogni giorno una nobilissima battaglia in nome e per conto del mondo intero». Se i nostri cuori diventeranno l’isola in cui questa battaglia si radica, non solo nel momento della commozione, ma nella nostra quotidianità, forse qualcosa cambierà. I 152 salvati, le 231 vittime, donne, alcune incinta, bambini di ogni età, giovani sposi, uomini e donne, non saranno morti invano. Ha scritto Etty Hillesum nel suo «Diario»: «Non credo più che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza avere fatto prima la nostra parte dentro di noi». Mariapia Bonanate
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