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1943, l'anno più terribile del '900 italianoIl 1943 è l’anno decisivo per la catastrofe cui andò incontro l’Italia durante la Seconda guerra mondiale. Il recentissimo libro di Marco Gasparini e Claudio Razeto («1943. Diario dell’anno che sconvolse l’Italia», Castelvecchi Editore, pp. 285, euro 16,50) ne offre la sistematica dolorosa radiografia. La corsa verso l’abisso è ricostruita attraverso lo stillicidio dei 250 bollettini di guerra emanati giornalmente dal comando supremo, fra il Capodanno (n. 951) e l’8 settembre (n. 1201), integrati da brevi cronache di commento e informazione tratte per lo più dal «Corriere della Sera». Valgano per tutte le righe, sinistramente umoristiche, che aprono la cronistoria: «Nel primo giorno dell’anno il Duce Benito Mussolini manifesta la sua vivissima preoccupazione per la cometa di cui gli astronomi annunciano l’imminente passaggio». Il Duce pensa davvero a tutto e per tutti. Salvo poi sottolineare, il 3 gennaio (anniversario dell’inizio della dittatura nel 1925), che «nel 1943 si decide se il popolo italiano ha un avvenire o no». In Africa no di certo, poiché nella successiva udienza al Quirinale, Mussolini si dichiara pessimista sulle sorti della guerra in Libia: «L’Italia deve prolungare quanto più possibile il suo sforzo», replica il re in qualche modo ottimista. «Non avremmo nulla da guadagnare da una pace di compromesso». Nel frattempo in Russia, sul fonte dell’Armir le cose vanno male, ma per i tedeschi addirittura malissimo, con la 6ª Armata di von Paulus definitivamente accerchiata a Stalingrado. Giunge in compenso la notizia che il Giro d’Italia, sia pure in «una versione adattata alla guerra», si correrà regolarmente. Apprendiamo inoltre che anche l’Italia ha la sua Mata Hari nella persona di una certa Laura D’Oriano, la quale, accusata di spionaggio militare e arrestata nel dicembre 1941, viene infatti fucilata a Roma all’alba del 16 gennaio. Tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio la guerra subisce una prima svolta. Sul fronte del Don la leggendaria divisione alpina Julia, non adeguatamente sorretta dal XXIV Corpo d’armata tedesco, è in via di disfacimento. Lo stesso dicasi dei reparti ungheresi, il cui capo di Stato maggiore il 18 gennaio dichiara che «tutto è perduto, il Corpo d’armata magiaro è accerchiato». Contemporaneamente Renato Bova Scoppa, il nostro ambasciatore a Bucarest, informa il ministro degli Esteri Ciano che il Conducător Antonescu nutre dubbi sul proseguimento della guerra a fianco della Germania e contempla l’ipotesi di trattare con gli anglo-americani. Ancora il 18 gennaio, l’Armata Rossa rompe l’assedio tedesco a Leningrado. In Libia Rommel si ritira dalla linea del Gebel, Tripoli viene abbandonata e la retroguardia italo-tedesca si riposiziona in Tunisia. Nel frattempo un’idea del pressapochismo dilettantistico con cui affrontiamo gli attacchi delle divisioni corazzate sovietiche che stanno distruggendo l’Armir era venuto dal «Popolo d’Italia» del 9 gennaio: il giornale descriveva infatti «uno degli stratagemmi utilizzati in Russia in mancanza di dispositivi anticarro: un soldato intreccia in un attimo della paglia, la bagna di petrolio e l’avvicina al ventilatore che è nella parte posteriore del mezzo corazzato nemico, che succhiando fuoco anziché aria, s’incendia». Una nota apparentemente ottimistica, datata 10 gennaio, giunge dal Quirinale: il generale Rosi, di lì a poco Capo di Stato maggiore dell’esercito, scrive nel suo diario che «il re è stato soddisfatto del suo giro in Sicilia. Le divisioni si sono presentate bene». È certamente meno soddisfatto il giovane re di Romania Michele, quando apprende che il 12 gennaio ha avuto inizio l’offensiva sovietica sul Don contro il fronte italo-romeno. Alla fine del mese, mentre a Stalingrado la 6ª Armata tedesca è in procinto di capitolare, a Roma il maresciallo Ugo Cavallero è destituito dalla carica di Capo di Stato maggiore e sostituito dal generale Vittorio Ambrosio, le cui intenzioni si concreterebbero in un piano preciso: «Riportare le nostre divisioni in patria, puntare i piedi contro i tedeschi». Replica il Duce: «Va benissimo». Purtroppo non si andrà oltre i buoni proponimenti. Il 24 gennaio il generale Bernard Montgomery, alla testa dell’8ª Armata britannica, entra a Tripoli. Le truppe italo-tedesche agli ordini di Giovanni Messe stanno intanto organizzando l’estrema resistenza in Tunisia. In Russia i resti della Divisione Cuneense si arrendono all’Armata Rossa. I bollettini si sussegono all’insegna dell’inevitabile monotonia delle notizie: difesa a oltranza in Tunisia e bombardamenti a tappeto prevalentemente sulle città meridionali (Napoli in testa), con distruzioni e centinaia di vittime. Il 17 febbraio, in una nota a Mussolini, il generale Castellano (sei mesi più tardi firmatario dell’armistizio a Cassibile) si esprime in termini lapalissianamente ottimistici: «Se noi riusceremo a stroncare i tentativi di sbarco anglosassoni, la situazione militare dell’Asse sarà notevolmente migliorata». L’illusione sembra concretizzarsi il 14 febbraio, con l’ultima offensiva di Rommel contro gli americani, che infatti subiscono una dura battuta d’arresto. Dieci giorni più tardi, però, la situazione è ristabilita a vantaggio degli alleati, i quali riprendono l’avanzata che terminerà soltanto il 14 maggio, quando il Duce ordinerà alle truppe italiane, ormai allo stremo, di cessare i combattimenti. Corriamo rapidamente verso il baratro. Il 15 maggio Roberto Suster, direttore dell’agenzia Stefani, riferisce nel suo diario di uomo bene informato: «Si ha l’impressione che l’Italia stia andando a fondo. Nell’esercito l’atmosfera è sempre più sfiduciata. Dicono apertamente che non abbiamo armi […]. È una umiliazione quella che sta subendo il Paese, ormai completamente dipendente da quello che vorranno e potranno fare i tedeschi per assisterlo». Il conto alla rovescia è cominciato, e ormai mancano meno di due mesi all’inizio dell’Operazione Husky, il temuto sbarco alleato in Sicilia. Intanto si comincia con Lampedusa e Pantelleria, che, dopo vari giorni di ininterrotto martellamento dal mare e dall’aria, l’11 e 12 giugno sono costrette ad arrendersi di fronte alla schiacciante superiorità avversaria. Un mese più tardi, 275 navi sbarcano nove divisioni angloamericane nella zona sudorientale della Sicilia. I bollettini dell’Alto comando registrano la gravità degli eventi. L’11 luglio Carlo Scorza, nuovo segretario del Pnf dal 17 aprile, annuncia orgoglioso che «appena sparsasi la notizia dell’attacco alla Sicilia, tutto il popolo italiano ha reagito con entusiasmo e una fierezza che può essere per Voi, Duce, giusto titolo di orgoglio». Né entusiasmo né fierezza animavano i torinesi la mattina del 13 luglio, dopo il terrificante bombardamento che aveva messo in ginocchio la città causando centinaia di morti. «La Stampa» del 18 luglio dà risalto al salvataggio di un uomo e di sua madre rimasti sotto le macerie per cinque giorni senza cibo e senza acqua: lui si chiama Olivetti, ed è un collega di mio padre. Ci rivedremo con commozione a guerra finita. Gli eventi precipitano. Il 19 luglio, a Feltre, il Duce incontra Hitler, che si lancia in un lungo monologo, mentre Mussolini si mostra uomo apatico e sfiduciato. Contemporaneamente Roma viene bombardata per la prima volta,con immense distruzioni e centinaia di vittime: Pio XII lascia il Vaticano e si reca a San Lorenzo, fra le macerie delle case bombardate, accolto dalla folla che grida «Santità, pace!». Roosevelt, appena informato dello scempio della storica basilica e della protesta del Pontefice, si sarebbe limitato a commentare con cinica insensibilità: «Non è poi il caso di fare tanto scalpore, abbiamo tutto il necessario per risarcire qualsiasi danno e per ricostruire il tempio più bello di prima». Detto per inciso, il 15 gennaio 1944 toccherà all’abbazia di Montecassino, deliberatamente distrutta da sir Bernard Freyberg per facilitare l’avanzata delle sue truppe neozelandesi: il che guadagna a Freyberg un posto d’onore fra i criminali di guerra alleati accanto al maresciallo dell’aria Tedder, il massacratore di Dresda, e al francese maresciallo Juen, l’assassino della Ciociaria. In Sicilia le cose, come del resto era abbastanza facile prevedere, stanno andando molto male. «Terrificanti bombardamenti aerei e navali vanno trasformando la città in un cumulo di rovine», scrive in un rapporto il questore di Catania. «Si notano lunghe teorie di soldati italiani sbandati e affamati che raggiungono paesi etnei diffondendo ovunque panico e terrore». È la conferma della scarsa combattività del nostro esercito, denunciata da Mussolini già il 14 luglio, e ribadita il giorno seguente dal feldmaresciallo Kesselring, che constata «l’inattesissimo rapido sfaldamento delle forze impegnate nella difesa costiera, le quali, almeno in uno dei settori più importanti, non hanno nemmeno accettato il combattimento». L’invasione è inarrestabile: Caltanissetta, Enna, e il 22 la stessa Palermo cadono nelle mani angloamericane. Due giorni prima il podestà, i gerarchi e altre alte personalità hanno abbandonato il capoluogo. Il regime come reagisce? Alla radio, per bocca del segretario del partito, si limita a ribadire un semplice invito: resistere, resistere, resistere. Il 22 luglio il Duce riceve Ciano, da poco nominato ambasciatore presso la Senta Sede, e si abbandona a farneticazioni di derivazione hitleriana: «Ebbene, sappi alcune cose che dovrai ben fissarti in mente e sulle quali ti invito a meditare quando sarai uscito di qua: la guerra è ben lungi dall’essere perduta; avvenimenti straordinari si verificheranno tra poco nel campo politico e militare, tali da capovolgere interamente le sorti della guerra. Germania e Russia si accorderanno, l’Inghilterra sarà distrutta. Io non cedo i poteri a nessuno; il fascismo è forte, la nazione è con me, io sono il capo, mi hanno obbedito e mi obbediranno». In realtà la maggioranza del Gran Consiglio riunito alle ore 17 del 24 luglio («divisa fascista sahariana nera, pantaloni corti grigioverdi», disponeva Scorza) ha una sola idea: togliere di mezzo Mussolini e restituire tutti i poteri al re. Per ogni evenienza, Dino Grandi porta in tasca due bombe a mano. Ma non ce ne sarà bisogno: Mussolini è al capolinea, anche se, a differenza dei suoi sodali, non sembra ancora essersene reso conto. Toccherà dunque al sovrano fargli capire che la situazione, sua personale e del regime, è definitivamente compromessa. Siamo al primo fondamentale punto di svolta del 1943: il 25 luglio Mussolini (in abito civile) si reca a Villa Savoia per illustrare a Vittorio Emanuele III le decisioni del Gran Consiglio; alle 17,20 il re congeda il Duce dapprima stringendogli la mano e poi provvedendo a farlo arrestare dal capitano dei carabinieri Vigneri, che fa salire l’ormai ex capo del governo su un’ambulanza, ufficialmente per proteggerne la persona. Il 26 luglio, eliminato il Duce dalla scena politica, ha inizio la seconda e più ardua fase, consistente nel mantenere il piede in due staffe, da un lato ribadendo la cooperazione con l’alleato tedesco e dall’altro avviando quelle trattative con gli alleati che culmineranno nell’armistizio dell’8 settembre. Donde l’inizio della guerra civile, caratterizzata, tra luci e ombre, dall’epopea della resistenza. La situazione precipita con rapidità travolgendo uomini e cose, Churchill pronuncia un discorso ai Comuni nei quali parla di Mussolini come «uno dei principali criminali di questa rovinosa guerra», fingendo di ignorare che con il dittatore italiano aveva per lunghi anni più o meno segretamente trescato. Ancora il 26 luglio Hitler ordina di sgombrare la Sicilia, riportando tutte le truppe in Calabria. Intanto Mussolini, prigioniero di lusso, viene trasferito dapprima sull’isola di Ponza, poi alla Maddalena e infine, il 7 settembre, a Campo Imperatore, sul Gran Sasso. Qui, il pomeriggio del 12 settembre, reparti di paracadutisti agli ordini di Otto Skorzeny liberano senza colpo ferire Mussolini, trasferendolo a Pratica di Mare, di lì a Vienna e infine a Monaco, dove il “restaurato” Duce incontra Hitler, furioso verso l’Italia traditrice ma sempre fiducioso nella vittoria finale. C’è tempo anche per registrare alcuni morti importanti legati alla tragedia italiana: il carismatico Ettore Muti, assassinato per ordine di Badoglio nella sua villa di Fregene, il maresciallo Ugo Cavallero, suicida in quel di Frascati, dove un bombardamento alleato alla ricerca di Kesselring lascia in vita il comandante tedesco del fronte italiano provocando in compenso seimila morti fra la popolazione. Ad essi vanno aggiunti i 1.350 marinai (compreso l’ammiraglio Bergamini) periti nell’affondamento della corazzata Roma, bombardata dalla Luftwaffe all’indomani dell’armistizio. Anche sotto questo punto di vista siamo al capolinea. È l’8 settembre: in mattinata Vittorio Emanuele III incontra Rudolf Rahn, nuovo incaricato d’affari tedesco, per ribadire la fedeltà dell’Italia alla Germania. Poco dopo le 19 lo stesso Rahn incontra il nuovo ministro degli esteri Guariglia, il quale gli comunica che «il maresciallo Badoglio, vista la disperata situazione militare, è stato costretto a domandare l’armistizio». Nel volgere di poche ore il tradimento italiano verso la Germania è ora diventato realtà. Sono passati settant’anni, ma le conseguenze “ideologiche” in Italia durano tuttora. Giorgio Gualerzi
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