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Roncalli e Wojtyla santi ad aprileL’attesa è stata sciolta. Angelo Roncalli, papa Giovanni XXIII, e Karol Wojtyla, papa Giovanni Paolo II, saranno proclamati santi il 27 aprile del 2014. L’attesa è stata sciolta da papa Francesco nel Concistoro pubblico di lunedì 30 settembre. Fra meno di sette mesi, in un luminoso giorno di primavera, nella seconda domenica di Pasqua dedicata alla Divina Misericordia, si scioglieranno le campane a festa nella Basilica di San Pietro e le immagini dei due Pontefici saranno esposte all’altare della Confessione alla vista dei fedeli esultanti che interverranno non solo dai Paesi dei due santi, l’Italia e la Polonia, ma da tutto il mondo. I due Papi sono stati e sono molto amati. Hanno segnato un’epoca. Giovanni XXIII indisse il Concilio Vaticano II cinquant’anni fa, dando una scossa non solo ai cattolici, ma a tutta l’umanità sotto l’incubo della guerra. Il prete bergamasco di umile famiglia, nunzio in Turchia e patriarca di Venezia, chiamato al soglio di Pietro in avanzata età, ebbe una vera ispirazione dallo Spirito Santo, la portò avanti con coraggio. Era il «Papa buono», il «parroco del mondo», che ebbe un grandioso intuito ma anche ispirazioni delicate, poetiche. Indimenticabile quella di chiamare in aiuto la Luna per salutare la folla in attesa in piazza San Pietro e invitarla a tornare a casa a dare una carezza ai bambini e dire loro «questa è una carezza del Papa». Aprì il Concilio, e fu un evento straordinario, con i vescovi riuniti in San Pietro, ma anche delegazioni delle altre confessioni cristiane, di osservatori laici anche non cristiani, un incrociarsi di fogge, di costumi, di lingue, di esperienze, tutte riassunte e unificate nella preghiera e nel latino. La sua agonia fu come un rito, doloroso e mistico, una preghiera silenziosa. Ereditò il Concilio Paolo VI, che lo portò a termine contro ogni opposizione, palese o occulta. L’elezione di Karol Wojtyla fu una sorpresa, come molto spesso accade. Conquistò la simpatia con quel suo «se sbaglio, mi corriggerete», che rivelò la sua semplicità e spontaneità. Acquistò la stima universale col suo coraggio. Veniva dalla Polonia, aveva fatto l’operaio, l’attore, rischiato la prigione. Fece crollare il Muro di Berlino, liberò l’Europa dal comunismo e dalla Cortina di ferro, allontanò lo spettro della “guerra fredda”. Particolare il suo feeling con i giovani, per i quali inventò la Gmg. Celebrò il Giubileo del Duemila. La sua malattia fu una pagina di Vangelo e l’agonia come una crocifissione. I giovani pregavano sotto le sue finestre. «Vi ho chiamati e siete venuti», disse nel momento supremo della morte. Migliaia di pellegrini per giorni e giorni a venerare la sua salma. «Santo subito», chiedeva il pubblico. Al suo funerale, il libro del Vangelo si sfogliava come se un angelo muovesse le pagine. Un segnale. «Il Santo Padre ci guarda dalla finestra del cielo», disse Ratzinger, che sarebbe diventato il suo successore e avrebbe aperto il processo per la sua beatificazione. Quel processo si è chiuso. La voce del popolo, che è voce di Dio, si è concretizzata. Con grande delicatezza e sensibilità, papa Bergoglio ha fissato il rito della canonizzazione in primavera, tenendo conto che molti pellegrini vengono con treni, pullman, auto e non ha voluto esporli a eventuali capricci del tempo. Nella Sala del Concistoro le vite dei due beati sono state passate in rassegna. Papa Francesco ha chiesto ai porporati se avevano altre considerazioni da esporre. Come ha ricordato padre Lombardi ai giornalisti riuniti in sala stampa, la canonizzazione coincide con i 50 anni del Concilio e risponde alla fama di santità universale che circonda Giovanni XXIII. Papa Francesco, di ritorno da Rio de Janeiro, disse che celebrare insieme queste due canonizzazioni era un segno di apprezzamento della santità di questi grandi Papi, testimoni del nostro tempo, legati al Concilio: uno perché lo ha indetto e messo in cammino; l’altro perché ne è stato poi anche un grande attuatore nel corso del suo straordinario pontificato. Una dispensa dal secondo miracolo, per procedere alla canonizzazione, era stata fatta proprio da Giovanni XXIII per san Gregorio Barbarigo. Papa Francesco è infaticabile. Si è aperta, come prevista, la sessione di lavoro degli otto cardinali che devono “consigliare” il Papa sulla riforma della curia e sul governo della Chiesa universale. La sua convinzione, espressa fin dal primo giorno, è che la Chiesa non può e non deve stare ferma. Lo ribadisce in un colloquio con Eugenio Scalfari, il fondatore de «la Repubblica», quel “patriarca” laico e non credente del giornalismo, ma affascinato dalla figura di Gesù, invitato in Vaticano ad un mese dalla risposta a due suoi articoli su fede e laicità. «Aprirsi alla modernità è un dovere». Questo il verbo di papa Francesco, come emerge dalla sostanza del colloquio, pubblicato sul quotidiano. Nel corso del dialogo il Papa ha accennato ai piani per la riforma della curia, che è ormai avviata e che non si ferma. Contestualmente è stato presentato anche il bilancio della Santa Sede, che è positivo e per il quale è stata espressa soddisfazione. Nello Ior, la banca Vaticana, procede l’operazione pulizia, con l’individuazione di tutti i conti anomali. Una Chiesa aperta alla modernità, dunque. Che abbraccia tutti i popoli, non col proselitismo, ma per inclusione, come già ha sostenuto Benedetto XVI e che ora papa Bergoglio riprende. Si è in attesa dei passi progressivi che verranno dalla riunione degli otto cardinali, il “G8 della Chiesa”, istituzionalizzato col “chirografo”, il documento autografo. Papa senza dubbio aperto e moderno, Francesco, che guarda alla realtà, parla e vive insieme ad altri vescovi e preti, accoglie i fratelli delle altre confessioni cristiane, come il patriarca ortodosso di Antiochia, Youhanna X, che ospita in Vaticano e che saluta pubblicamente chiamandolo «fratello» al termine della messa in piazza San Pietro nella giornata dedicata ai catechisti. La mattina alle 7 celebra puntualmente le messa nella cappella di Casa Santa Marta e nell’omelia esorta a uno stile di vita in cui rifulga la virtù della temperanza, la rinuncia al superfluo, l’esortazione a non rincorrere il successo e la ricchezza. E a non sparlare, perché la maldicenza e il gossip minano l’unità della Chiesa. Con lieve ironia ha battute folgoranti. Ai gendarmi dice: «Non è facile che venga un esercito qui a prendere la città. Napoleone non tornerà, La guerra oggi, almeno qui, si fa altrimenti: è la guerra del buio contro la luce, della notte contro il giorno. In Vaticano tentazione che al diavolo piace tanto è quella contro l’unità, una sorta di guerra civile e spirituale, che si fa con la lingua». «Chi corre dietro al nulla diventa lui stesso nullità», dice ai catechisti, che nella loro Giornata per l’Anno della fede convogliano in Piazza San Pietro ben 100 mila persone. Li mette in guardia contro «il rischio di adagiarsi, di avere come centro il nostro benessere». «Se le cose, il denaro, la mondanità diventano centro della vita, ci afferrano, ci possiedono e noi perdiamo la nostra stessa identità di uomini». Costante è anche l’attenzione di papa Francesco sulla situazione mondiale, sui focolai di guerra, sulla Siria. Ha dato pieno sostegno al lavoro e all’impegno umanitario dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), nell’udienza al direttore generale, Ahmet Üzümcü, il quale ha illustrato al Papa il lavoro della struttura da lui diretta, in particolare «le attività critiche assegnate all'Organizzazione in Siria per verificare l’eliminazione delle sue armi chimiche». Tappa significativa in questo itinerario di pace è il pellegrinaggio Ad Assisi nella giornata del 4 ottobre, festa di quel grande santo che si recò in Marocco a incontrare il Sultano, in uno slancio di ecumenismo. Del “Poverello” Francesco ha voluto prendere il nome. Antonio Sassone
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