Per fortuna c'è la mano dell'Europa

Quando i nostri lettori avranno in mano il giornale, il passaggio parlamentare decisivo dell’esecutivo Letta (non si sa che senso abbia chiamarlo ancora “delle larghe intese”) si sarà consumato e quindi potrà essere chiaro se si avrà un auspicabile ritorno sui propri passi di Silvio Berlusconi, con la conferma della coalizione, una spaccatura all’interno del Pdl con una fiducia di misura ottenuta grazie ai moderati del centro-destra, oppure la caduta del governo e l’avvio delle consultazioni per la formazione di un nuovo esecutivo, magari minoritario, in grado di condurre comunque in porto la Legge di stabilità, sotto il sostanziale commissariamento della Commissione e della Banca centrale europea, e la riforma della legge elettorale, per un rapido ritorno alle urne (peraltro sostanzialmente impossibile prima di febbraio–marzo del prossimo anno).

L’accelerazione improvvisa, per quanto non imprevedibile, della crisi, sembra confermare un’ulteriore involuzione all’interno del Popolo delle libertà, con la sconfitta del partito–azienda (un’anomalia, ma pur sempre sostenuta da motivazioni razionali e comprensibili, anche se spesso non condivisibili) e l’affermarsi di un’ala movimentista, anti-europea, refrattaria alle regole dello Stato di diritto e al rispetto degli impegni internazionali liberamente assunti dal nostro Paese, alcuni dei quali proprio dai governi presieduti da Berlusconi. Un’involuzione confermata dalle vicende di mercato di lunedì 30 settembre, che hanno visto il titolo Mediaset in testa alla classifica dei ribassi, pesantemente penalizzato proprio dalle scelte politiche del suo azionista di riferimento.

Va osservato, nel pieno del marasma scatenato dalla scelta disperata dell’ex-premier, che i mercati, almeno nei primi due giorni, hanno reagito in modo tutto sommato composto, con lievi flessioni delle quotazioni di Borsa e un contenuto allargamento dello spread dei titoli italiani rispetto ai bund tedeschi, dell’ordine dei 50 punti base, che ha portato il rendimento del Btp decennale, prossimo al 4,2 per cento prima della crisi, sulla soglia del 4,6 per cento.

Per il momento almeno, il confronto con la fine del 2011 non regge, e per ottimi motivi. In tutto ciò conta ovviamente lo scenario internazionale, all’epoca fortemente critico considerando la grave recessione, la crisi dei debiti sovrani nell’ambito dell’Eurozona e il vero e proprio incubo rappresentato dal default greco, mentre oggi la ripresa nell’area della moneta unica è confermata ed addirittura appare più sensibile del previsto in due economie–chiave come Francia e Germania, mentre l’euro ha superato la sua prima grande prova. In seconda battuta, la situazione economica e finanziaria del nostro Paese e le prospettive per i prossimi mesi appaiono oggi nettamente migliori rispetto ai giorni drammatici di fine 2011, quando era chiaro che l’Italia si sarebbe avviata verso una lunga recessione anche a fronte delle politiche di “lacrime e sangue” poste in essere da un governo tecnico nato per poter rimettere in linea i conti dello Stato dopo il conclamato fallimento delle forze politiche.

Oggi, proprio grazie al tanto vituperato governo Monti, il risanamento è stato operato, il nostro Paese dispone della più rigorosa normativa pensionistica d’Europa e, se non fosse per la drammatica eredità degli oltre 2 mila miliardi di euro di debito, che si traducono in una spesa per interessi dell’ordine dei 90 miliardi annui, i nostri conti sarebbero addirittura migliori di quelli tedeschi. In più, oggi, dopo due anni terribili, il Pil ha sostanzialmente smesso di cadere, ed è quasi certo (crisi politica permettendo) che nell’ultimo trimestre vedremo un sogno “più” davanti alla sua variazione, che dovrebbe consolidarsi nel corso del 2014. Detto in parole povere, una crisi politica fa meno paura con l’economia in ripresa, anche se estremamente lenta.

Ma c’è una terza e molto più importante ragione che spiega il (per alcuni) sorprendente aplomb con cui i mercati sembrano aver reagito all’ennesima prova negativa della nostra classe politica. Oggi infatti il Paese è molto più protetto dagli accordi internazionali rispetto a due anni fa o, detto in altro modo, oggi la classe politica nazionale, per quanto sciagurata possa essere, non è più nelle condizioni di fare troppi danni, perché le principali decisioni di finanza pubblica sono sottoposte al vaglio preventivo delle autorità europee. Una perdita di sovranità che molti nel nostro Paese avversano, a cominciare proprio dalle personalità e dalle correnti politiche che hanno provocato la crisi accusando il governo e il ministro dell’Economia di eccessiva acquiescenza nei confronti dei «burocrati di Bruxelles», ma che proprio in questo frangente si rivela un’autentica benedizione. Infatti, qualunque governo possa avere il Paese nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, dovrà comunque varare la Legge di stabilità per il 2014, presentarla entro il 15 ottobre a Bruxelles, e rispettare rigorosamente sia il vincolo del 3 per cento nel rapporto tra indebitamento annuo e Pil nel 2013, sia le raccomandazioni che alcuni mesi fa hanno accompagnato la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo a carico nel nostro Paese.

Un governo debole come quello che potrebbe nascere se il passaggio parlamentare di Letta dovesse concludersi senza successo non avrebbe certo grande potere contrattuale nei confronti della Commissione europea. Quindi la versione definitiva della Legge di stabilità conterrà, per convinzione o per forza, le misure che il nostro Paese avrebbe comunque dovuto varare se diretto responsabilmente: il taglio del cuneo fiscale e quindi delle imposte sul lavoro, compensato da riduzioni più incisive di spesa pubblica o da una rimodulazione dell’imposizione indiretta (peraltro già avviata con l’aumento di un punto dell’aliquota Iva) e la sostituzione del gettito Imu con quello di un’altra imposta comunale, con un nome diverso ma una base imponibile analoga. Tassare meno le persone e più le cose, un vecchio cavallo di battaglia di Giulio Tremonti, ministro dell’Economia dei governi di centro-destra, e che oggi un Berlusconi disperato ha dimenticato e sostituito con la presunta “sacralità” della prima abitazione (magari d’extralusso). Se il Parlamento in un sussulto di follia non la approvasse nella versione “europea”, scatterebbe comunque l’esercizio provvisorio del bilancio, con effetti restrittivi anche maggiori.

Ma non è tutto. Se, nonostante la sostanziale impossibilità di far danni imposta alla politica italiana dal fiscal compact nella nuova e più coercitiva versione (two-pack) i mercati dovessero, con il passare delle settimane, perdere progressivamente fiducia nel nostro Paese e iniziare a vendere massicciamente titoli del Tesoro, vi sarebbe comunque a disposizione l’intervento della Banca centrale europea. Francoforte, in tempi non sospetti, ha lasciato capire che i tassi di interesse resteranno a lungo molto bassi e che quindi le banche potranno rifornirsi abbondantemente di liquidità a costi contenuti.

E’ anche certo che, se ciò non bastasse, Draghi ha pronta in rampa di lancio una terza Ltro (Long Term Refinancing Operation) dopo quelle di dicembre 2011 e febbraio 2012. Si tratta di un nuovo massiccio prestito al sistema bancario dell’Eurozona che potrebbe essere utilizzato dagli istituti di credito italiani per non vendere i titoli di Stato di cui sono carichi e per acquistare quelli eventualmente venduti in massa, nell’ipotesi più negativa, dagli investitori esteri in ritirata. E se neppure questo bastasse, vi sarebbe sempre l’arma assoluta, quello che i giornalisti specializzati chiamano «il bazooka di Draghi», o «scudo anti-spread» e che tecnicamente si definisce «programma Omt» (Outright Monetary Transactions). Ossia l’acquisto diretto da parte della Bce di titoli di Stato del Paese sotto attacco speculativo previa richiesta di aiuto presso il meccanismo di stabilità europeo e impegno, da parte del Paese beneficiario, ad un serio programma di risanamento monitorato dalla Commissione e dalla Bce. Siamo quindi ben protetti: le “badanti” non mancano. Sta a noi non averne bisogno, e non pagarne l’inevitabile e salato costo.

(2-continua)

Antonio Abate

 



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