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Telecom-Alitalia non tutto è maleDopo Parmalat e Bnl ora è la volta di Telecom e Alitalia. Altre due aziende italiane potrebbero passare sotto il controllo straniero. Una novità che non piace alla politica e ai sindacati e uscita proprio nei giorni in cui il presidente del Consiglio Enrico Letta aveva presentato ai mercati internazionali il nuovo decreto su dismissioni pubbliche e incentivi agli investimenti stranieri in Italia. «Non è un problema di barriere, né di passaporto di capitali in un mercato aperto come quello europeo», aveva detto il premier prima che esplodesse la crisi di governo, «l’acquisizione di Telecom da parte di Telefonica riguarda innanzitutto il livello occupazionale. Non è un problema di nazioni, ma un problema di interessi strategici». Intanto Franco Bernabè, presidente di Telecom Italia, ha ipotizzato tempi lunghi per l’intera operazione: «La vendita delle partecipazioni in America latina di Telecom determinerebbe un forte ridimensionamento del profilo internazionale del gruppo e delle sue prospettive di crescita e comunque potrebbe non essere realizzabile in tempi brevi, compatibili con la necessità di evitare il rischio downgrade». Sullo scorporo delle rete Telecom Italia, invece, ha confermato il proprio impegno a procedere nel confronto con l’Autorità per le telecomunicazioni e con la Cassa depositi e prestiti. Ma i sindacati sono in allarme. Cgil, Cisl e Uil chiedono un incontro urgente al presidente del Consiglio. Susanna Camusso, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti hanno inviato una lettera al premier e al ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato. «La modifica dell’azionariato di Telecom Italia provoca conseguenze rilevantissime su tutto il comparto delle telecomunicazioni», si legge nella missiva, «un settore strategico per il futuro del nostro Paese». Allerta anche per il caso Alitalia. Sono a rischio 6 mila posti di lavoro, secondo le stime dei sindacati, se la compagnia dovesse passare ad Air France. Contrario al controllo straniero anche Carlo Cimbri, amministratore delegato di Unipol e Fonsai, secondo cui perdere asset industriali importanti «impoverisce l’Italia ed è una tragedia nazionale che si prolunga da anni». Ma è davvero sbagliato che Telecom passi a Telefonica e Alitalia ad Air France? L’abbiamo chiesto ad Andrea Giuricin, docente dell’Università Bicocca di Milano ed economista dell’Istituto «Bruno Leoni». Un eventuale passaggio di Telecom alla Spagna è così grave per l’Italia? Mi domando come mai si parla tanto di attrarre in Italia investimenti stranieri e poi, quando succede, ce ne lamentiamo. Se Telecom dovesse passare sotto il controllo spagnolo a mio avviso ci sarebbero solo effetti positivi. In questo momento l’azienda spagnola è un grande gruppo di investimento, che può portare forti innovazioni sul cablaggio, sull’alta velocità delle telecomunicazioni e i 4G sulle reti mobili: elementi che sono particolarmente utili al nostro Paese e su cui comunque è indispensabile lavorare per facilitare la ripresa economica. Non conta la nazionalità dell’operatore, ma quanti investimenti necessari farà. Come mai si è arrivati a questo punto? Il colosso italiano della telecomunicazione da agosto è gravato da un fortissimo debito, che ammonta a 29 miliardi di euro. Moody’s aveva dato all’azienda tre mesi per risolvere la situazione. Poiché Intesa San Paolo, Mediobanca e Generali volevano uscire dal patto, Telefonica, che già possedeva il 46 per cento di Telco, non poteva fare altrimenti. Se ricordiamo bene come andò la storia dell’azienda, si decise l’ingresso di Telefonica perché era il male minore per l’Italia. C’era Carlos Slim che aveva intenzione di entrare con America Movil nel mercato italiano, ma gli furono chiuse le porte in quanto era «un cattivo messicano» e si rese necessaria una soluzione alternativa: ovvero Telefonica più il controllo del sistema con gli attori di sempre, Generali, Intesa San Paolo e Mediobanca. Oggi la vendita a Telefonica è stata dettata secondo me da due fattori. Innanzitutto da un certo punto di vista pesa la normale concentrazione che si sta vedendo adesso nel mercato: si va verso un mercato unico, quindi bisogna essere grandi per poter competere in un mercato globale. Dall’altro versante la crisi economica ha messo in difficoltà le nostre banche, che risultano molto più deboli ed è complicato per loro sostenere il ruolo che hanno sempre avuto nel capitalismo italiano. Pensa che ci siano rischi per l’occupazione? Se ci sono non dipendono dall’acquisto da parte di Telefonica, ma dall’indebitamento di Telecom. Penso comunque che con la vendita delle attività in Brasile e delle torri di comunicazione mobile l’azienda possa abbattere il proprio debito senza toccare i dipendenti. Si prospetta anche una possibile cessione di Alitalia ad Air France. Cosa ne pensa? Se Telecom ha problemi gravi, Alitalia ne ha di enormi: la sua liquidità è finita e ha bisogno di interventi immediati per passare l’inverno. Air France ha già il 25 per cento della nostra compagnia di bandiera e un giro d’affari molto più ampio. Per Alitalia, poi, non c’è un problema di costi, che peraltro sono più bassi degli altri operatori europei. Qui a mancare è la flotta, soprattutto per il traffico a lungo raggio, che poi è il più redditizio. Anche per Alitalia i sindacati prevedono un rischio per i lavoratori: le ultime stime parlano addirittura di 6 mila posti in esubero. Ma ricordiamo che a fine 2007 sono stati proprio i sindacati, insieme alla politica, i fautori dell’accordo che ha portato a questa situazione. Quindi oggi non dovrebbero proprio intervenire… Queste aziende non sono certo le prime a cadere in mano straniera. Cosa si potrebbe fare per prevenire questo passaggio di proprietà? Il problema non è tanto il fatto che gli stranieri vengano in Italia: i loro capitali ci sono utili. Pensiamo, per esempio, al settore dell’auto. Qui abbiamo solo Fiat, che produce 600 mila vetture all’anno, mentre in Spagna ci sono anche altri operatori stranieri e la produzione totale arriva oltre i 2 milioni: la presenza di aziende di nazionalità diversa permette un incremento di produttività. Ma è importante anche che gli stranieri rimangano in Italia. E questo spesso non accade a causa di vincoli burocratici infiniti, tasse troppo alte e costo del lavoro troppo oneroso. Sarebbe poi importante, certo, che le aziende italiane fossero più solide per evitare scalate esterne. Il problema dell’Italia è che non ha mai voluto confrontarsi con un mercato globale ed è sempre stato un Paese molto chiuso. La conseguenza si ritrova nel fatto che è rimasta una realtà non dico autarchica, ma incline a cercare soluzioni al proprio interno senza vedere i benefici che possono arrivare dagli investimenti esteri. Cosa possiamo aspettarci per il futuro? Spero vivamente che sia l’inizio di una fase nuova, bisognerà vedere come si comporteranno governo e Cassa depositi e prestiti e non solo su questi dossier, perché in ballo c’è anche Ansaldo, su cui permangono ancora molti dubbi. Paradossalmente la debolezza di questo esecutivo potrebbe aiutare l’Italia, nel senso che l’interventismo che c’è sempre stato in passato oggi è un’ipotesi complicata, sia dal punto di vista politico, con una maggioranza instabile, che dal versante economico. Perché la crisi ha indebolito, e di molto, le banche italiane. Cristina Conti
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