Iran, spiraglio di luce

Due recenti avvenimenti hanno gettato qualche spiraglio di luce sulle situazioni di conflitto dell’area mediorientale: l’accordo fra Stati Uniti e Russia per la messa sotto controllo dell’arsenale chimico siriano e, in prospettiva ancora più significativa, l’apertura del neo-presidente iraniano Hassan Rohani per una trattativa sul programma nucleare di Teheran.

Il primo risulta cruciale per stemperare le tensioni provocate dalla minaccia di intervento diretto degli Usa nel conflitto siriano a seguito dell’utilizzo di armi chimiche contro i civili, ovvero il superamento della famosa “linea rossa” tracciata come limite invalicabile di qualunque azione bellica. Un successo diplomatico per il Cremlino, che regala un certo margine di manovra al suo protetto Assad e rintuzza lo slancio bellico statunitense senza costringere la Casa Bianca a una penosa retromarcia, dopo essere rimasta praticamente in solitudine (a parte Hollande) a sostenere l’opzione interventista. Del resto, nell’ambiguo e cinico gioco delle parti che si sta giocando nello scacchiere mediorientale, finora Mosca si è mossa assai meglio di Washington: Putin, dittatore freddo e spietato, persecutore di oppositori politici e massacratore di ceceni, nonché sponsor del tiranno di Damasco, è riuscito a vendersi come l’uomo del dialogo e della diplomazia. Al contrario, il premio Nobel per la pace Obama, democratico e attento ai diritti umani, è parso come un guerrafondaio avventurista, che rischiava di buttare benzina sul fuoco con un intervento militare non supportato da una strategia di lungo periodo e senza l’appoggio degli alleati tradizionali, quali la Gran Bretagna, bloccata dal veto parlamentare, o l’Italia, disponibile a muoversi solo nell’ambito di risoluzioni Onu. E gli Usa avrebbero finito per fare il gioco delle astute diplomazie di Arabia Saudita e Qatar, Paesi-guida dell’islam sunnita, i quali avrebbero ottenuto la liquidazione di un importante tassello della fazione rivale sciita senza scontrarsi direttamente con i “fratelli” musulmani, bensì lasciando il “lavoro sporco” a un’America nuovamente in versione “Grande Satana”, come ai tempi bui di George W. Bush.

Uno scenario fortunatamente evitato in extremis dall’accordo raggiunto fra il ministro degli Esteri russo Lavrov e il suo omologo statunitense Kerry, peraltro ancora da mettere a punto nei dettagli e certamente non risolutivo, tant’è che Damasco lo ha salutato come una vittoria, mentre Obama si affrettava a ribadire che l’opzione militare, al momento scongiurata, rimaneva in stand-by, in attesa di verificare le mosse di Assad. Il quale dal canto suo ha guadagnato un po’ di tempo per fare il compitino assegnato, cioè elencare le armi che sa perfettamente di possedere e recuperarle dai nascondigli dove fino a un attimo prima le aveva smistate, per poi consegnarle per la distruzione. Nel frattempo, potrà continuare a massacrare la popolazione con le armi convenzionali. Un brutto colpo per il prestigio degli Stati Uniti, anche se mascherato dai sorrisi di Kerry e dalle dichiarazioni in stile decisionista di Obama,sottolineato dalle dure critiche dell’opposizione interna repubblicana.

Ma, inaspettatamente e negli stessi giorni, alla Casa Bianca è arrivato un aiuto insperato da dove probabilmente meno se lo aspettava, cioè dal nemico Iran. A segnare l’importante svolta è stato il nuovo presidente Hassan Rohani, sia attraverso contatti ufficiali con l’Amministrazione Obama che, in maniera inusuale ma molto significativa, rilasciando un’intervista alla rete televisiva americana Nbc. Unico candidato moderato (termine comunque relativo, nel panorama politico iraniano) ammesso alle elezioni dello scorso giugno dalla severa selezione imposta dal Consiglio dei Guardiani, ha potuto raccogliere anche il consenso dell’elettorato riformista, sbaragliando al primo turno, con oltre il 50 per cento dei voti, tutti i candidati conservatori, compreso il delfino del presidente uscente Ahmadinejad. Un risultato che ha portato a compimento quel processo di rinnovamento iniziato nel 2009 con l’Onda verde, il movimento di popolo a sostegno del riformista Moussavi, che era poi stato stroncato nel sangue dopo la rielezione del falco Ahmadinejad, peraltro viziata da brogli, e che ha mostrato la volontà di cambiamento del popolo iraniano, stufo di vivere segregato dal resto del mondo a causa delle posizioni oltranziste propugnate del presidente uscente.

Non per nulla, appena eletto Rohani ha marcato la sua affermazione come «la vittoria dell’intelligenza, della moderazione e del progresso sull’estremismo», incanalando la sua azione politica nel solco dei precedenti presidenti moderati, Rafsanjani e Khatami. Ma con Rohani l’azione riformista appare ancora più decisa: l’urgenza di rompere l’isolamento internazionale ha portato il nuovo presidente a instaurare il dialogo direttamente con gli Stati Uniti, dopo decenni di gelo diplomatico a seguito dell’assalto all’ambasciata americana di Teheran nel 1979, ad opera del regime di Khomeini. Il nuovo presidente ha assicurato di godere dell’appoggio della Guida suprema Ali Khamenei, vero detentore del potere in Iran, e di avere piena autonomia decisionale per quanto riguarda il programma nucleare iraniano, tanto da poter riprendere in prima persona i negoziati che aveva già condotto per conto dell’amministrazione Khatami.

A dimostrazione che un nuovo corso è iniziato davvero, Rohani non si è limitato a semplici dichiarazioni d’intenti, ma è passato ai fatti, scarcerando una dozzina di dissidenti politici imprigionati sotto il governo precedente. Fra essi, Nasrin Sotoudeh, attivista per i diritti umani legata al premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, e alcuni esponenti politici di rilievo, mentre permangono ancora agli arresti domiciliari Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, esponenti riformisti sconfitti alle presidenziali del 2009.

La svolta iraniana, salutata con favore dagli Stati Uniti e dall’Occidente in generale, ha fatto registrare un unico commento stonato da parte di Israele, il cui premier Netanyahu ritiene ingannevoli le aperture iraniane. Atteggiamento ricambiato da Rohani, che ha bollato Tel Aviv come pericolosa per la pace, affermazione peraltro non priva di sostanza. L’avvicinamento tra Usa e Iran preoccupa l’esecutivo di Netanyahu, che si ergeva a baluardo dell’Occidente contro la (presunta) corsa di Teheran verso l’arma atomica, oggi chiaramente accantonata da Rohani, e utilizzava questo spauracchio per acquisire quel consenso interno e internazionale che adesso teme di vedere ridimensionato.

Al contrario, se l’Iran saprà guadagnare e mantenere la fiducia delle potenze mondiali, tornerà a essere un attore di primo piano nello scacchiere mediorientale, inserendosi a pieno titolo nella contesa per la leadership del mondo musulmano, oggi riservata ad Arabia Saudita e Turchia, dopo l’implosione dell’Egitto. E la fede sciita che condivide con l’establishment della Siria potrebbe farne un prezioso ponte diplomatico in vista di negoziati più serrati e risolutivi con Damasco, per porre definitivamente fine ai massacri in corso.

Riccardo Graziano

 



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