Ma la memoria non è in crisi

Il Premio intitolato da quest’anno al fondatore dell’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, Saverio Tutino (scomparso qualche mese fa), è andato per il 2013 a una coppia del tutto inconsueta: un uomo e una donna che si sono scambiati lettere per sei anni senza mai vedersi in faccia, tranne che in foto.

Un tenente del regio Esercito, Francesco Leo, milanese, impegnato sul fronte libico nel 1940, fatto prigioniero dagli inglesi in quello stesso anno; e un’insegnante fiorentina, Anna Maria Marucelli, che senza sapere chi egli fosse si impegnò come “madrina di guerra” a tenergli compagnia e fargli coraggio ogni tanto, con qualche lettera.

Qui di fianco si può leggere la sintesi del loro epistolario (intitolato «Yol-1511») nell’opuscolo di presentazione degli otto finalisti del Premio 2013 da parte dell’Archivio (ne riproduciamo anche altre due, di un facoltoso toscano dell’Ottocento e di una nobildonna madre di sette figli residente a Torino). Vi appare sostanzialmente il ritratto di due caratteri, che la lettura della loro intera corrispondenza conferma con rara efficacia, perché è in questa assoluta sincerità, in questo coraggio spesso disinvolto e talvolta scherzoso, in questa crescente stima reciproca, fra un prigioniero di guerra in un campo di concentramento in India (Yol, appunto) e una donna libera, ma fortemente impegnata a dare un senso alla propria vita in un Paese prima in guerra e poi in difficile rinascita sociale, economica, politica e morale, che la giuria del Premio li ha scelti.

L’angosciosa incertezza della situazione di Franco (così si abbrevia nel nome Francesco) aumenta man mano che passa il tempo dopo la fine del conflitto, e la liberazione dal campo di concentramento sembra essere attesa invano, di mese in mese. Ne fa fede questo brano di una lettera datata 4 aprile 1946: «Giorni fa sono iniziate le partenze per il rimpatrio: 2000 collaboratori che passarono immediatamente al nemico dopo il 25 luglio 1943. Li ho visti passare: la maggior parte camminava a testa ed occhi bassi e ti assicuro che non ho provato invidia a vederli partire. Quanto sono contento di tornare anche molto dopo di loro, ma con il mio spirito! Sapessi quale soddisfazione, tranquillità, sicurezza ed orgoglio dà il sentimento d’essere perfettamente in pace con la propria coscienza!». L’attesa del rimpatrio dura fino alla vigilia di Natale del 1946, un anno e mezzo dopo la fine della guerra anche con il Giappone, dopo la orrenda tragedia atomica di Hiroshima, che Franco giudica profondamente ingiusta ed inaccettabile.

E lei non è da meno. A caso, scegliamo questo brano, di appena un giorno prima, il 3 aprile 1946: «Domenica con Andreina (un’amica e collega, ndr) sono andata a teatro; ci vado sempre più di rado perché i prezzi sono proibitivi. Ho veduto una commedia francese, “Amarsi male” di Mauriac. Nel complesso non mi é piaciuta; erano in gioco affetti troppo egoistici e soprattutto morbosi. A me piacciono le cose chiare, limpide, e tutto quello che è tortuoso ed ibrido è così lontano dal mio spirito che non riesco neppure a capirlo!».

L’epistolario è molto lungo, alcune centinaia di pagine dattiloscritte da Francesco Leo anni dopo il ritorno in patria, quando i due si erano sposati da tempo, come era inevitabile dopo un così lungo colloquio d’implicito amore nel silenzio di un doppio, comune destino di dolori e di speranze, di delusioni e di fiducia nel proprio coraggio di fronte alle difficoltà. Quello che colpisce è che l’ex ufficiale, diventato in pace un rappresentante di commercio, non abbia cambiato nulla rispetto ai manoscritti anche quando una spinta opportunistica avrebbe potuto correggere qualcosa, per esempio la coerenza con un passato politico –il fascismo- da lui materializzato con la scelta del servizio militare intriso di patriottismo e di fedeltà ai giuramenti.

Del resto Francesco Leo non era un tipo da arrendersi facilmente alle disgrazie. Come racconta ad Anna il 22 giugno del 1945, tentò la fuga dal campo in modo addirittura inverosimile: prima abbigliandosi e conciandosi il viso come un indiano, e poi indossando una veste monacale, facendosi passare per una suora missionaria e cercando di salire su un treno locale, ma un dolore improvviso a un piede glielo impedì, tanto che finì in un ospedale, dove fu scoperta la sua vera identità maschile (e maschia…) e fu rispedito a Yol, con un mese di detenzione suppletiva.

Il matrimonio di Anna e Franco durò trentotto anni, fino alla morte di lui (lei è morta nel 2005, a 93 anni); hanno avuto due figli e la prima, Daniela, è venuta a ritirare il premio nella consueta cerimonia della seconda domenica di settembre nel piccolo Comune in provincia di Arezzo (3.200 abitanti) distrutto dai tedeschi in fuga e ricostruito in vent’anni di generosa fatica, e dove la gente appare di una stirpe etica e culturale perfettamente adatta a raccogliere, in un Archivio come quello, i racconti di tante vite, diverse l’una dall’altra, ma tutte degne di essere conosciute attraverso i diari e gli epistolari. Non per nulla lo slogan di quest’anno è stato «ma la memoria non è in crisi». Tanto è vero che proprio domenica è stata inaugurata la prima coppia di camere (alla fine nel 2016 saranno quattro) di un Museo interattivo multimediale fisico e digitale connesso “in rete” con suoni e immagini, e in grado di offrire ai visitatori cassetti con memorie e diari segreti.

Anche fra il 2012 e il 2013 sono giunti a Pieve quasi duecento fra manoscritti e documenti di vario genere, per il concorso o da conservare riservati; ormai in tutto sono più di settemila, che hanno dato luogo a film, documentari, rappresentazioni teatrali come quella intitolata «Se non sarò me stesso», dedicata a cinque storie della Shoah dalla compagnia Teatro dell’Argine, e recitata con molti applausi sabato sera. Più i libri in cui si riproducono le memorie più significative, premiate nel corso di un trentennio. Quest’anno, ad esempio, sono stati pubblicati dal Mulino il diario scritto in carcere dal “malavitoso” romano Claudio Foschini, «In nome del popolo italiano», premiato nel 1992 (l’autore morì tragicamente, ucciso da una guardia giurata durante un tentativo di rapina nel 2010); e l’epistolario vincitore del premio nel 2011 «Parole trasparenti», diari e lettere 1939-1945 di Ettore Finzi e Adelina Foà, una coppia di ebrei fuggiaschi in Palestina dopo le leggi razziali italiane con i loro due bambini, e lui costretto a cercare lavoro petrolifero in Persia.

Ma si va anche indietro nel tempo, riesumando manoscritti arrivati a Pieve ancora negli anni Ottanta, come quello del pittore Giuseppe Forcignanò, nato a Gallipoli nel 1862 e morto in carcere a Parigi nel 1919, condannato per avere ucciso per gelosia la moglie argentina Rosa, giornalista e corrispondente letteraria de «La Prensa» dalla capitale francese. Le lettere scritte da Forcignanò alle sorelle dalla detenzione, fino alla morte, sono state portate a Pieve e giudicate “finaliste” dalla giuria locale del premio nel 1988. Per la serie «Autobiografie», promossa dall’Archivio, quelle lontane missive sono state appena pubblicate in un libretto di 94 pagine con il titolo «Tirai su di lei per troppo amore».

Non basta. Il diario-memoria «di un analfabeta» «lasciato nudo e crudo», di Castrenze Chimento, premiato lo scorso anno, è stato raccolto in un volumetto di un centinaio di pagine da Terre di mezzo e presentato nel Teatro comunale sabato mattina 14 settembre dagli storici Duccio Demetrio e Nicola Tranfaglia. Castrenze Chimento, un poverissimo siciliano nato ad Alia nel 1935, vissuto fin dall’infanzia (i genitori cominciarono a litigare fra loro quando lui non aveva che cinque anni) fra lavori pressoché disumani e poi emigrato prima a Milano e poi in Germania come operaio, non ha saputo leggere né scrivere fino a 74 anni, quando ha deciso di iscriversi a una scuola elementare di Palermo, dove vive tuttora, ed ha imparato talmente bene che è riuscito a mettere insieme realisticamente, ma con grande efficacia stilistica popolare, la sua storia, mandarla a Pieve e vincere un premio come questo.

Durante la presentazione della sua opera ha soprattutto tenuto a dichiarare la sua profonda fede cristiana che lo ha sostenuto nelle disgrazie e nelle difficoltà di un’esistenza in apparenza senza speranze; e sollecitato da Nicola Tranfaglia ha manifestato calorosamente, fra gli applausi del pubblico, la sua sconfinata e affettuosa ammirazione per papa Francesco e la sua opera a favore di una «Chiesa povera, per i poveri». Di anno in anno, quante cose si imparano a Pieve Santo Stefano, terra tradizionalmente “rossa” ma aperta all’Altro come raramente si vede, in Italia e nel mondo. Non per nulla, infine, la Verna francescana è a meno di venti chilometri da qui.

Beppe Del Colle

 



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