Ilva, un disastro con colpe segrete

Si complica la situazione del gruppo Riva a causa dell’Ilva. Il nuovo provvedimento del gip di Taranto, Patrizia Todisco, ha interessato le aziende controllate e partecipate del gruppo. La Guardia di finanza ha sequestrato 916 milioni di euro, a cui si aggiunge il miliardo e 200 milioni sequestrati nei mesi scorsi.

A farne le spese sono state tredici aziende della Riva acciaio dislocate in Lombardia, Piemonte e Veneto. La reazione della proprietà non si è fatta attendere: immediatamente è stata sospesa la produzione e messi in libertà 1400 operai.

«Il provvedimento», ha comunicato il gruppo, «si è reso necessario poiché il sequestro, ordinato dalla magistratura di Taranto e notificato a Riva Acciaio lo scorso 9 settembre, sottrae all'azienda ogni disponibilità degli impianti, che occupano oggi circa 1.400 addetti, e determina il blocco delle attività bancarie, impedendo pertanto la normale prosecuzione operativa della società». Risposta indubbiamente dura, spropositata, perlopiù una ripicca nei confronti della magistratura. Gli esiti, però, potrebbero essere pesanti per l’economia nazionale e l’occupazione in un momento in cui comincia ad affacciarsi un timido raggio di ripresa.

Contrarissimi e critici i sindacati. «Siamo di fronte ad un ennesimo epilogo inaccettabile», ha tuonato Mario Bentivogli, segretario nazionale della Fim-Cisl. «Siamo favorevoli affinché nessuna lentezza nelle procedure autorizzative possa bloccare i lavori previsti dal piano ambiente per l'Ilva, ma non possiamo accettare che produzione e occupabilità delle aziende collegate paghino in modo così pesante e costante», ha precisato il segretario nazionale della Uilm, Mario Ghini. E Maurizio Landini della Fiom-Cgil ha chiesto il commissariamento delle aziende per garantire l’occupazione. «La scelta di Riva di mettere in libertà più di 1.400 lavoratori», ha detto, «è un atto di drammatizzazione inaccettabile, perché scarica sui dipendenti responsabilità non loro».

L’azienda replica per le rime. «E’ un atto dovuto», ha comunicato. «E’ la tempestiva esecuzione del provvedimento del gip che, ordinando il sequestro, ha sottratto alla proprietà la libera disponibilità degli impianti e dei saldi attivi di conto corrente». Proprio così non è. Difatti il decreto del gip non prevede il divieto di uso dei beni. «I beni», hanno precisato in procura, «verranno immediatamente affidati, così come previsto dall'originario provvedimento del gip e allo scopo di evitare pregiudizi per la loro operatività, all'amministratore giudiziario, nominato a suo tempo dal giudice proprio allo scopo di garantire la loro gestione». Dunque, non c’è stata alcuna volontà di colpire la produzione.

In realtà, al di là delle drammatiche ricadute sul piano economico e a livello locale che il sequestro del gip potrebbe provocare, la situazione è più complessa. I costi dell’applicazione dell’Autorizzazione integrata ambientale cominciano ad essere quantificati. Si parla di una cifra tra 1,5 e 1,8 miliardi di euro e c’è il timore che la proprietà non vi faccia fronte. Un’inchiesta della guardia di finanza di Milano ha scoperto 700 milioni nell’isola di Jersey, un paradiso fiscale nel Canale della Manica che potrebbe essere ricondotto alla famiglia Riva. Un tentativo di occultare fondi preziosi? La domanda è d’obbligo.

Intanto l’inchiesta «Ambiente svenduto» sul disastro ambientale causato dall’Ilva a Taranto sta portando alla luce aspetti inquietanti e sorprendenti, fuori da ogni logica imprenditoriale. Dalle intercettazioni telefoniche è emersa la presenza all’interno del siderurgico pugliese di una struttura occulta che era il vero centro decisionale. Da essa dipendeva tutto, ogni aspetto della vita aziendale, pur non avendo alcuna responsabilità: dalle relazioni con i sindacati, alle attività produttive, agli appalti. Sono state arrestate cinque persone, quattro sono finite in carcere e una ai domiciliari, che davano ordini per conto della famiglia Riva. «Tale sistema», si legge nell’ordinanza di custodia cautelare, «ha consentito ai Riva di continuare ininterrottamente attraverso la longa manus dei suoi fiduciari e nonostante varie sentenze penali emesse a far data dal 1998 nei confronti dei vertici dell'Ilva di Taranto, ovvero di suoi dirigenti, a gestire lo stabilimento siderurgico di Taranto secondo la cinica e spregiudicata logica della massimizzazione del profitto a scapito della salute pubblica e dell'ambiente».

Era un sistema che nulla aveva a che fare con il profitto lecito, la produttività, ma con lo sfruttamento puro senza riguardi per nulla. «Ci sono precedenti del genere nella storia industriale italiana?», si è domandato Alessandro Leogrande sul «Corriere del Mezzogiorno». «Non in questi termini, non in queste forme. Questo deve far riflettere su come il bubbone Ilva, non solo per l’inquinamento, sia scivolato fuori dai binari della civiltà».

Gravi omissioni hanno permesso un così grande scempio ed è difficile venirne fuori. Infatti la situazione ambientale a Taranto non è per nulla migliorata e i ritardi sono consistenti. La rete di monitoraggio della qualità dell’aria interna allo stabilimento funziona male, mancano soprattutto i dati relativi alle emissioni di diossina. «Ad oggi», ha detto l’’arcivescovo di Taranto, mons. Filippo Santoro nel messaggio inviato alla comunità diocesana in occasione della Giornata della salvaguardia del creato, «la nuova Autorizzazione integrata ambientale (Aia) e i decreti non sono serviti a migliorare la situazione. Ancora una volta sembriamo essere atterriti da un fatalismo inesorabile e tutto tarantino».

Dunque, c’è grande preoccupazione, in Puglia come al Nord. Il problema Ilva è enorme e travalica i confini regionali. Tutti sono chiamati a fare la loro parte per risolverlo, poiché le carte e le inchieste della magistratura evidenziano omissioni gravissime a tutti i livelli. Vite svendute e tragedie evitabili.

Pasquale Pellegrini

 



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