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Dalla Moldavia con amoreLo sguardo spaesato, dolente, impietrito della figura ritratta nella copertina di «Miei cari figli, vi scrivo» (Einaudi, pp. 180, euro 16,00), è sensibilmente simmetrico al contenuto del romanzo epistolare di Lilia Bicec, nata in un piccolo paese della Repubblica moldava da genitori ex deportati in Siberia. Un libro che è il registro della sua vita in Italia, in colloquio con i figli in patria, strutturato in forma di sequenze di lettere, come a suggerire un dialogo ininterrotto e l’esigenza della scrittura come antidoto alla solitudine, stimolo al coraggio di affrontare sconfinate contrarietà. Vi trovano spazio sfoghi senza conforto, pesanti fardelli, fatiche fisiche e morali, inciampi desolanti, grevi cadute, resurrezioni di ostinata forza e caparbia volontà. La serie di lettere è l’unico mezzo a disposizione dell’autrice, protagonista e voce narrante, per parlare con i figli lontani che crescono senza la sua presenza. È partecipare ai loro mutamenti, sentirli sereni o tristi, condividere le loro esperienze, i loro dubbi, dispensare consigli, narrare il passato della famiglia e del paese. Ed è ottimo stratagemma narrativo per raccontare con penna appuntita realtà personali e altrui, per scavare in tante storie, per dimostrare come la valenza del cuore consenta di vincere durissime realtà. Con azzeccati flashback, la Bicec risale ai felici anni trascorsi da fanciulla con la sua famiglia, circondata da affetto e serena educazione. Dopo gli studi presso la facoltà di giornalismo dell'università statale moldava, nella città di Chisinau, e la nascita dei due figli, Cristina e Stasi, con entusiasmo intraprende nel 1992 la carriera di giornalista, lavora per il «Lunca Prutului», un settimanale organo del comitato esecutivo di Glodeni, e per la radio locale. La Moldavia ha ottenuto l’indipendenza nel 1991, ma gli enormi problemi di povertà e disoccupazione sono irrisolti, dilaganti, la libertà d’espressione è disattesa dagli occhiuti funzionari statali. L’autrice è accusata di nazionalismo per i suoi articoli incisivi sulla vera storia della Bessarabia, sulle origini latine della lingua rumena, consentita dopo un silenzio di cinquant’anni, per le accorte indagini circa le deportazioni in Siberia. Sono rivelazioni scomode e la sua attività giornalistica è boicottata con ogni mezzo. Nel 1997 nasce a Glodeni il primo giornale indipendente, «Accent provincial», la Bicec viene assunta dalla nuova redazione, si reca negli Stati Uniti per uno stage, ritorna ricca di idee per una stampa libera e indipendente. Trova, tuttavia, una realtà ben diversa dalle sue attese: la popolazione non ha di che sfamarsi, mancano i soldi anche per il pane, è impensabile l’acquisto di un giornale, pur influente per la diffusione di notizie libere e schiette. Priva sia di alternative che le consentano un accettabile tenore di vita per i figli, sia dell’aiuto del marito che lavora, ma ama molto attaccarsi alla bottiglia, l'autrice decide di sconvolgere radicalmente la sua vita nella speranza di una nemesi. Abbandona quanto di più caro e prezioso è nel suo cuore. Nel 2000 Lilia Bicec parte illegalmente, piena di timori, per l’Italia, dove spera di trovare lavoro e adeguati compensi. Non trascura minuzie nel racconto delle tremende, devastanti vicissitudini del viaggio insieme ad altre donne dall’identica sorte, servendosi di uno stile piano, incisivo, tagliente, efficace nel tratteggio di un esodo volontario e gravoso: pericoli, molestie, sistemazioni disumane, percorsi in foreste sconosciute, paure per l’agguato della polizia, la richiesta di documenti che nessuno possiede. La penna aguzza, arguta, pronta a infiammare le pagine di fronte ad argomenti di natura politica e ideologica, poggia su di un linguaggio attento, lineare, confacente alla sostanza narrativa. Circostanze e personaggi fanno capolino nel racconto, delicato e accorato nell'indagine delle ombre del cuore e di un efficace termine, «dor», che indica al contempo nostalgia e desiderio. Le pagine scorrono arricchendosi di nuove argomentazioni, di trame nuove e antiche, spaziano da sintomi personali a situazioni corali di altre donne straniere, piante senza radici in un Paese diverso, decise a usare ogni risorsa per guardare avanti, stringere i denti, non cedere allo sconforto. La Bicec intreccia con abilità trama e ordito in un tessuto perfetto in cui ogni filo è ineccepibile dettaglio della sua vita in Italia, dei mestieri di colf e badante che svolge a costo di spossanti fatiche e di logoranti spostamenti in bicicletta o in corriera. La perizia giornalistica la induce a esplorare ambiti più vasti, dipingendo con intense pennellate la storia della Moldavia, i patimenti degli esuli siberiani, le corrotte ingiustizie del regime, l'assolutismo disinteressato alle più elementari necessità di sopravvivenza di una popolazione travagliata. La testimonianza diretta di un anziano soldato stimola un accurato scarto laterale, erudito flash nella storia vissuta dagli italiani durante la Seconda guerra mondiale. La conoscenza vera della campagna italiana in Russia consente all'autrice di capire ciò che del fascismo e dell'alleanza con la Germania è stato nascosto e mistificato, di tratteggiare la sofferenza in periodi e situazioni il cui comune denominatore è la disperazione, cagione di forza ribelle a dure imposizioni. L’idea di sofferta solitudine stimola a comprendere che la solitudine è condivisa, che la condivisione significa la vicinanza altrui, fonte di iniziative coraggiose. La coralità non dissuade il fil rouge del racconto al singolare, che ritorna ciclicamente ai tratteggi individuali e l’arrivo in Italia dei figli rende l’animo della Bicec robusto, sicuro, orgoglioso. È il fato a spegnere il suo ritrovato sorriso con una tragedia insormontabile. Fulvia Gonella
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