Dal Sud, mezzo secolo fa

Mario, Carmela, Giovanna.... I protagonisti di questa storia sono alcuni fra i molti figli e figlie dei meridionali immigrati a Torino quando l'Italia viveva l'incredibile miracolo economico del secondo dopoguerra. Le loro storie si assomigliano tutte e li vedono, bambini e adolescenti, affrontare il trauma del trasferimento dai paesi e dalle campagne pugliesi o siciliane o calabresi nella città della Fiat in pieno sviluppo, che attirava manodopera dal Veneto e dal Mezzogiorno. Ma anche la città delle case dormitorio, dei quartieri-ghetto, nei loro ricordi la città del freddo e della nebbia.

Le loro esperienze sono presentate in un bel libro di Anna Badino, giovane studiosa che ha lavorato con un assegno di ricerca all'Università di Torino e ha pubblicato nel 2008 «Tutte a casa? Donne tra migrazione e lavoro nella Torino degli anni Sessanta». L'ultima sua fatica, edita da Carocci, s'intitola «Strade in salita» e si occupa dei percorsi accidentati degli immigrati di seconda generazione, bambini negli anni Sessanta.

L'autrice, che si avvale di fonti documentarie inedite, tra cui le tesi di ricerca della Scuola per assistenti sociali di Torino (Unsas), e interviste recenti, ricostruisce uno spaccato della società torinese di quegli anni utile da considerare nei nostri giorni, in cui Torino, città multietnica, negli ultimi vent’anni ha dovuto attrezzarsi ad accogliere l'arrivo di popolazioni asiatiche, africane, americane... Ma la Torino di mezzo secolo fa era più accogliente verso i connazionali giunti dal Sud?

Per tutti il primo impatto è con il clima differente: l'arrivo alla stazione di Porta Nuova segna il passaggio «dal sole alla nebbia». Negli alloggi in periferia i nuovi arrivati vivono allo stretto, i genitori lavorano tutto il giorno, i ragazzi soffrono di solitudine e hanno difficoltà a entrare in relazione con i loro coetanei piemontesi. Le cose non migliorano a scuola. Tra le fonti utilizzate ci sono i registri di alcuni istituti elementari di un quartiere della vecchia periferia operaia: qui le relazioni delle maestre parlano di bambini disordinati e svogliati, poco seguiti dai genitori.

A queste valutazioni "ufficiali" fanno riscontro le testimonianze di intervistati e intervistate della generazione che fra il 1960 e il 1970 frequentava le scuole elementari. Mario, arrivato a Torino da Enna nel 1962, a sei anni, perde il primo anno di scuola, dopo di che «... è stato drammatico nel senso che ho fatto fino alla quarta elementare e poi non ho fatto più niente... [Quando arrivavi qui] per loro, eravamo persone diverse, ignoranti... io ci ho litigato. Ho litigato con gli alunni, il maestro, le mamme». Dopo una serie di insuccessi scolastici, Mario a dodici anni e mezzo va a lavorare.

Le bambine a casa devono fare da vicemadri ai fratelli più piccoli e occuparsi delle faccende domestiche. Giovanna, originaria di Melfi, arriva a Torino nel 1968. Ha 13 anni e per un anno dovrà, da sola, accudire il fratello che fa il muratore. L'arrivo a Torino è traumatico, a Porta Nuova vede tutto buio, è molto spaventata. La casa ha il bagno fuori ed è al pianterreno di un vecchio caseggiato. Giovanna si prende cura della casa, accudisce il fratello e anche il fidanzato della sorella, ma non è libera di avere una propria vita di relazioni e di amicizie, non può muoversi da sola al di là della cerchia del caseggiato; né il fratello la porta con sé quando esce con gli amici. Tuttavia le bambine hanno meno difficoltà dei maschi a scuola, perché sono ordinate, obbedienti e servizievoli, all'altezza delle aspettative, «socializzate all'etica della responsabilità fin dalla prima infanzia».

Ai due diversi modelli educativi corrispondono i comportamenti diversi dei due sessi; se per i ragazzi la spinta di riscatto porta alla sfida all'autorità e all'acquisizione di un prestigio "di strada", per le ragazze il riscatto passa attraverso il proseguimento degli studi. Le ragazze che proseguono gli studi dopo le medie sono in percentuale maggiore dei maschi; mentre questi trovano aperta la strada per lavori di tipo operaio e manuale, le femmine frequentano corsi professionali (molto diffusi all'epoca i corsi privati di stenodattilo) che preparano a più qualificanti lavori d'ufficio.

Spesso però devono vincere l'ostilità dei genitori, convinti che la strada maestra per una ragazza sia il matrimonio. Capita così che le ragazze facciano una scelta molto faticosa: unire al lavoro in fabbrica lo studio, oltre che notevoli impegni di cura familiare. Ecco la giornata di una diciassettenne siciliana: «Mi alzo alle 6,30 perché devo aiutare mia madre... Poi devo accompagnare il mio fratellino a scuola; poi alle 8 comincio a lavorare. È un lavoro in piedi, molto faticoso [lavora a cottimo in una fabbrica di confezioni per nove ore al giorno]... lavoro fino alle 18,15... Vado a prendere il mio fratellino a scuola, arrivo a casa alle 7 e qualcosa, quindi faccio in tempo a preparare la cartella con i libri e devo andare subito a scuola. Non ceno. Alle 11 poi la fame mi passa; praticamente non mangio mai la sera. Tante volte mi fermo ancora a studiare fino all'una e poi vado a letto...».

Abbiamo visto che le ragazze sono molto meno libere dei loro fratelli: consegnano il salario alle madri, che esercitano sulle figlie un fortissimo controllo, tanto che per molte di loro il matrimonio appare l'unica via di fuga possibile. Capita così che sposino il primo ragazzo incontrato, quasi sempre del loro stesso ambiente e della loro stessa origine, e anni dopo si separino.

L'aspirazione ad uscire di casa raramente si esprime in un progetto di autonomia svincolato dal matrimonio, nonostante quelli siano gli anni successivi alla contestazione del '68. Una delle poche è Betti, che farà la maestra e prima dei trent'anni acquisterà un alloggio e andrà a vivere da sola. Col matrimonio le  ragazze sperano anche di realizzare un altro sogno: «Finalmente una casa decente», dice Carmela, «bella, aveva un bagno, una cucina, il soggiorno, la camera da letto, l'entrata. Per me era bellissima questa casa». Anche lei da bambina era vissuta in una casa poco confortevole: «A quell'epoca tutte le famiglie immigrate avevano il bagno fuori, una cosa bruttissima, lavarsi con una bacinella. Io l'ho fatto per tanti anni», ricorda Giovanna, sorella di Carmela, «c'erano quelle bacinelle grandi anche con i manici, che scaldavi l'acqua e ti facevi il bagno il sabato sera. Era triste, molto triste».

Strade in salita, dunque, in cui le soddisfazioni familiari e di carriera sono conquistate a caro prezzo dalle donne del Sud, che, secondo la ricerca della Badino, si trovano tuttavia svantaggiate rispetto alle loro coetanee locali. Carmela, riprendendo gli studi abbandonati per il lavoro, consegue la licenza media a 16 anni e poi, sempre lavorando, riesce a diplomarsi ragioniera. Entrata da operaia in azienda, fa carriera e diventa impiegata; ma la affligge ancora un senso di inadeguatezza: «Svolgo il mio lavoro da responsabile nel mio piccolo. Però, credimi, con tante lacrime, con tanta sofferenza e tanta umiliazione da parte di colleghi e capi....». Adesso però, a quasi cinquant'anni, Carmela non è più la ragazza timidissima che balbettava: «Adesso mi sono fortificata. Quindi adesso me le faccio io le battute, prima che me le facciano loro....».

Gianna Montanari



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