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Siria, il vero dilemmaIl gesto forte del Papa, la giornata di digiuno e preghiera del 7 settembre, ha ricordato a tutti i cattolici che il dramma della Siria li interroga personalmente. La situazione, estremamente complicata, richiede una valutazione corretta sia del quadro geopolitico internazionale e regionale, dove non si possono non considerare le manovre egemoniche, che utilizzano leve sia politico-militari sia economiche, della Cina, dell’Iran e anche dell’Arabia Saudita e del Qatar, tutte a vario titolo pericolose per l’Occidente, sia dello scontro interno al mondo islamico. Questo scontro va ricostruito nelle sue premesse, che riguardano tutto l’islam in generale, rispetto al quale la Siria è un caso particolare. Di fronte agli avvenimenti siriani, come a quelli egiziani, si confrontano sui media italiani due letture. La prima è soprattutto preoccupata dall’islam politico, al potere fino a qualche mese fa in Egitto con Morsi, e che rischia di andare al potere in Siria una volta caduto l’attuale regime. Si mostra quindi disponibile a tollerare le dittature militari, per quanto carenti sul piano dei diritti umani, perché almeno tengono l’islam politico lontano dal potere. La seconda, molto diffusa anche negli Stati Uniti e in Francia, concentra la sua attenzione sulla democrazia e i diritti umani, e si preoccupa quando sono imposte soluzioni «non democratiche», salvo poi trovarsi in difficoltà a identificare chi sia veramente «democratico» nei vari contesti nazionali. Alcuni cattolici in particolare privilegiano la prima lettura, perché l’islam politico tratta spesso in modo particolarmente discriminatorio le minoranze cristiane, e perfino i militari e i dittatori sembrano preferibili. Entrambe le letture contengono elementi apprezzabili, ma sembrano talora carenti di riferimenti a un quadro più ampio. Il problema non nasce con le cosiddette “primavere arabe”. Nasce con l’assedio di Vienna del 1683, la più grande sconfitta della storia dell’islam, su cui i musulmani discutono ancora oggi. Un esercito più numeroso, meglio addestrato, meglio armato e che aveva dalla sua anche profezie di vittoria che risalivano alle origini dell’islam non poteva perdere. Ma perse. Perché? Fin da subito nel mondo islamico si contrapposero due risposte. Per la prima, l’islam aveva perso perché era rimasto indietro rispetto all’Europa. Si trattava di fare appello a consulenti europei e modernizzare l’esercito, l’amministrazione, il governo, finendo poi per modernizzare fatalmente anche la cultura. Per la seconda risposta era tutto il contrario: l’islam aveva perso perché si era avvicinato troppo all’Europa. I primi musulmani del deserto erano analfabeti, ma vincevano tutte le battaglie. Al momento della sconfitta di Vienna, secondo questa lettura, i sultani di Istanbul avevamo a corte pittori francesi e musicisti italiani, ma avevano perso la fede semplice che consentiva ai loro antenati di vincere in guerra. Fin dall’inizio questa seconda lettura, chiamata prima «tradizionalista» e poi, quando si dotò nel secolo XIX di una maggiore struttura ideologica, «fondamentalista», fu minoritaria e confinata a «periferie dell’impero», liquidate con un’alzata di spalle come irrilevanti dai sultani ottomani: l’Arabia, la Nigeria, l’India. Prevalse la prima lettura, quella «modernista», con le modernizzazioni dei sultani che prepararono quelle, più radicali, dei “giovani turchi” e di Kemal Atatürk (1881-1938). La massoneria, che si era ampiamente diffusa in Medio Oriente, offrì ai «modernisti» un quadro dottrinale di riferimento, e la decolonizzazione quasi ovunque fu gestita da sostenitori di questa corrente, che controllavano le forze più organizzate nei vari Paesi, gli eserciti. Il «fondamentalismo» restò minoritario e perseguitato. La prima risposta al dilemma dell’islam sembrava unanimemente vittoriosa. Nel decennio 1979-1989, tuttavia, le cose iniziano a cambiare. Nel 1979 per la prima volta il fondamentalismo vince e va al potere, dove nessuno se lo aspetta: in Iran, dove il regime degli scià sembrava offrire il volto più attraente e patinato della modernizzazione. I regimi militari, laici e massonici, usciti dalla decolonizzazione si rivelano quasi ovunque brutali e corrotti. In politica estera molti si appoggiano all’Unione Sovietica, che prima diventa invisa ai musulmani invadendo il sacro suolo dell’islam in Afghanistan e poi sparisce dalla scena mondiale. La crisi della prima risposta, modernista, al dilemma dell’islam dà vigore alla seconda, fondamentalista. I regimi militari tengono, spesso con l’aiuto non più dell’Unione Sovietica ma di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Ma tengono con sempre maggiore difficoltà. Quando con la crisi economica globale iniziata nel 2008 diversi regimi autoritari laici cominciano a socializzare non più la sopravvivenza ma la miseria, in tre Paesi senza petrolio (Tunisia, Egitto e poi Siria) scoppiano le rivolte di piazza. In Libia, Paese petrolifero e relativamente prospero, non scoppia nessuna rivolta, ma i servizi segreti di alcuni Paesi occidentali, con la Francia in testa, profittano della crisi regionale per saldare vecchi conti con il regime di Muammar Gheddafi (1942–2011). A differenza di quella libica, ampiamente manipolata, le altre rivolte sono «vere». Secondo uno schema plurisecolare, delusi dai modernisti, i rivoltosi si rivolgono ai fondamentalisti e li portano al potere in Tunisia e in Egitto, e alla guida della rivolta in Siria. I fondamentalisti al potere, come si è visto in Egitto, a loro volta spesso deludono le attese, da cui un’altra oscillazione del pendolo. In Siria la questione è complicata da peculiarità nazionali. Come è noto, i musulmani si dividono nel settimo secolo in sunniti e sciiti, questi ultimi sostenitori della tesi secondo cui l’islam dev’essere guidato non da califfi elettivi, ma da membri della famiglia del profeta Muhammad (570-632), a partire da suo cugino e genero ‘Ali, che è ucciso nel 661. Dal ceppo principale sciita si staccano poi «sette» dette iper-sciite, che considerano ‘Ali non solo una vittima delle ingiustizie sunnite, ma un’incarnazione divina e il rivelatore di dottrine esoteriche. Tra questi iper-sciiti ci sono gli alauiti siriani, minoranza (12 per cento) in un Paese all’ottanta per cento sunnita. Benché anche gli sciiti, a cominciare da quelli iraniani, abbiano tradizionalmente considerato gli alauiti come non ortodossi, essi si sentono certamente più vicini a loro che ai sunniti. Per una serie complessa di ragioni, la Francia, la potenza coloniale che controllava la Siria, affidò alla minoranza alauita, e in particolare ai membri della potente famiglia alauita degli Assad, le posizioni decisive nell’esercito siriano. Questo permetterà loro, dopo l’indipendenza, di impadronirsi del potere, dopo alterne vicende, nel 1970 con il colpo di Stato di Hafiz al Assad (1930-2000), cui succede nel 2000 il figlio e attuale presidente Bashar al Assad. In Siria con la famiglia Assad non vi è dunque, come altrove, una dittatura della maggioranza che opprime le minoranze, ma la dittatura di una minoranza (alauita) sulla maggioranza (sunnita). Di qui negli anni 1980 i tentativi d’insurrezione contro Assad padre dei Fratelli Musulmani, sunniti e fondamentalisti, e la spietata repressione del regime alauita, con un numero di morti che probabilmente non si riuscirà mai a contare, variamente stimato fra i 35 mila e i 70 mila, e la nuova rivolta sunnita contro Assad figlio che ha sfruttato a partire dal 2010 l’onda delle “primavere arabe” e da cui nasce una guerra civile il cui costo umano è arrivato a centomila morti. In questo scontro, come in altri in corso nel mondo arabo, è difficile identificare i «buoni». Da una parte troviamo dittature militari nazionaliste e laiche, con un’ideologia politica di tipo massonico e una economica di tipo socialista, per di più guidate da un personale corrotto, pronto a tradire alla prima occasione anche i Paesi occidentali di cui pure oggi sollecita l’aiuto. Dall’altra troviamo l’islam politico, che ha certo diverse declinazioni e sfumature ma che, quanto più le situazioni sono di conflitto violento, tanto più è egemonizzato dalle correnti fondamentaliste più ostili all’Occidente e alle minoranze cristiane. Entusiasmarsi per i militari in nome della stabilità e della repressione del fondamentalismo, o al contrario per l’islam politico in nome della democrazia, rappresenta una duplice ingenuità. Questo quadro deve renderci cauti nel valutare la situazione in Siria, evitando ogni difesa di Assad e ogni apologia dei ribelli, riconoscendo i guasti provocati dall’attuale regime, non solo in Siria ma anche in Libano, dove la longa manus di Damasco è all’origine di tante violenze. Nello stesso tempo, però, chiedendoci se veramente chi guida i ribelli offre garanzie quanto al rispetto dei diritti umani e delle minoranze religiose. La situazione siriana non ha soluzioni politiche immediate. Di qui la pertinenza del gesto profetico del digiuno, che ad alcuni è sembrato utopistico e ingenuo, ma che invece riconosce, in una situazione tecnicamente «apocalittica», che, quando viene meno ogni ragionevole speranza umana, non muore però la speranza che si fonda sull’aiuto di Dio e della Madonna, Regina della Pace. Massimo Introvigne
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