Italia d'oggi in ostaggio di uno solo

Le cronache romane dicono che frotte di giornalisti stranieri, inviati speciali di giornali e tv di tutti i continenti, si sono accampate da settimane nella capitale per assistere a quella che normalmente fra loro è chiamata «la fine politica di Berlusconi».

I particolari contano sostanzialmente poco, ma forniscono materiale eccellente per descrivere che cosa sia mai l’Italia di oggi, in crisi di disoccupazione, soprattutto giovanile, calo del Pil, aumento del debito pubblico, e principalmente debolezza di un sistema istituzionale che vede in conflitto da anni fra loro politici e magistrati, ma anche i componenti di singoli partiti, in primo luogo quelli considerati in radice antiberlusconiani, il Pd (benché alleato del Popolo della libertà nella “larga intesa”) e il M5S; per non considerare l’estrema fragilità di un governo che fin qui non ha fatto poi troppo male, e che su quella alleanza si fonda.

La ragione è semplice: la «fine politica di Berlusconi» appare inevitabile, ma stabilirne i tempi e le modalità è stato fin qui un “giallo”, a cui il giornalismo in genere è affezionato, perché attira il pubblico, dal Canada alla Nuova Zelanda. Un “giallo” che ignora tranquillamente un dato inequivocabile: che il Cavaliere è un pregiudicato e che lo attendono le sentenze da parte di almeno altri due tribunali, quello di Milano e quello di Napoli, per reati diversissimi fra loro (prostituzione minorile e acquisto di seggi parlamentari).

In più, il 19 ottobre la Corte d‘appello di Milano deve stabilire la durata della sua interdizione dai pubblici uffici, che secondo la Cassazione dovrà posizionarsi fra un anno e tre anni, rispetto ai cinque stabiliti come accessori dalla sentenza di condanna a 4 anni per il reato di frode fiscale, ormai passata in giudicato.

La Giunta del Senato per le elezioni e per l’immunità si é riunita come da programma il 9 settembre a Sant’Ivo alla Sapienza, e i suoi 23 membri (in maggioranza di Pd, Sel e M5S), hanno discusso litigando per più di cinque ore, poi hanno rinviato la seduta alle 20 del giorno dopo, martedì. Il centro della disputa era il voto sulla decadenza di Berlusconi da Palazzo Madama, e in sostanza le posizioni erano due.

Il Popolo della libertà desiderava ardentemente che il voto fosse rinviato, se non altro per consentire alla Corte europea della Giustizia della Ue al Lussemburgo di esprimersi sul ricorso presentato la settimana scorsa dall’ex premier contro la sentenza di Milano, confermata dalla Cassazione: e magari per aprire un’analoga vertenza davanti alla nostra Corte costituzionale riguardo alla costituzionalità della legge Severino sulla eleggibilità parlamentare dei condannati entro un certo numero di anni di carcere. Se la Giunta avesse votato subito per la decadenza di Berlusconi, i suoi cinque ministri e i suoi sottosegretari si sarebbero dimessi dal governo, mandandolo in crisi. Il Partito democratico e i suoi sostenitori rispondevano che avrebbero rispettato la legge e non avrebbero accettato il ricatto: avrebbero votato la decadenza e buonanotte.

Quello che è successo da quel momento in poi è noto. In questi giorni sta succedendo di tutto, ma la consistenza del problema resta quello di prima: un Paese con sessanta milioni di abitanti, dei quali una buona parte vive da anni sulla soglia o sotto la soglia della povertà, e dove quattro giovani su dieci non trovano lavoro e non hanno speranza di trovarlo presto, è legato inestricabilmente con il destino di una sola persona. Non era mai successo, e oggi è lontanissimo dal succedere in nessun Paese democratico della Terra. In più, quella persona è giuridicamente sul punto di dover scegliere fra un anno di arresti domiciliari o di impegni in centri sociali, ma rischia altre condanne, che magari lo porterebbero in carcere.

Questo Paese ostaggio di una sola persona rischia di dover restare senza un governo per alcuni mesi, prima che il Parlamento sia sciolto e siano indette nuove elezioni da un nuovo Presidente della Repubblica (Napolitano ha detto che piuttosto si dimetterebbe, e quindi dovrebbe essere sostituito da questo Parlamento); un’Italia senza governo, o con un governo senza maggioranza stabile, sarebbe alle prese con una crisi economico-finanziaria più grave di quella vissuta finora, e perderebbe ogni stima internazionale, soprattutto nei mercati finanziari.

Bella prospettiva, non c’è che dire, ma come rispondono i due avversari di oggi? Si darebbero l‘un l’altro la colpa di aver fatto cadere il governo, dopo di che aspetterebbero il giudizio del cosiddetto “popolo sovrano”. Un “sovrano” molto mal messo, a dire il vero, che potrebbe rispondere o con un forte aumento dell’astensionismo elettorale, o dando molti più voti a Beppe Grillo, aspettandone chissà cosa, visto che finora non ha detto che insulti e molti «no» a qualsiasi offerta di alleanza.

In particolare il mondo cattolico, una vota elettorato democristiano, dovrebbe porsi ancora una volta una domanda finora sostanzialmente inevasa, se non in base a simpatie del tutto personali per un mago della comunicazione: perché votare Berlusconi? Come ha ricordato Francesco Anfossi su «Famiglia Cristiana», la scorsa settimana il Cavaliere, per ingraziarsi Marco Pannella, ha firmato a favore di tutti e dodici i referendum proposti dal vecchio leader radicale, compresi quindi i due, dedicati il primo all’introduzione del “divorzio facile” e il secondo alla modifica dell’8 per mille che destinerebbe allo Stato i fondi sui quali i contribuenti non si pronunciano, finora distribuiti proporzionalmente fra le varie Chiese.

Le cose stanno così, nel momento in cui questo giornale va alle stampe. Noi avremmo preferito che sia da una parte che dall’altra si facesse “un passo indietro”: da Berlusconi un addio volontario e pacifico dalla politica, dopo vent’anni di tumultuosa avventura fra Palazzo Chigi e l’opposizione sulla piazza e sui suoi media; e dal Pd la rinuncia al voto immediato alla decadenza del Cavaliere dal Senato, per assicurare la vita del governo di Enrico Letta (che è un dirigente di quel partito) in un momento delicatissimo per tutti: un po’ di tempo in più non avrebbe cambiato le cose. Invece…

Beppe Del Colle



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