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Il miliardo per la Fiat del futuroSu Mirafiori il «Wall Street Journal» è stato smentito: lo stabilimento “simbolo” della Fiat non chiuderà. Dopo otto anni di cassa integrazione Sergio Marchionne ha assunto un provvedimento concreto, stanziando un miliardo di euro per le nuove linee del “polo del lusso”, che saranno collegate alla fabbrica ex Bertone di Grugliasco. Per un anno continua la cassa, per allestire le nuove strutture produttive, ma da settembre 2014 è sicura la produzione di un Suv Maserati; è anche possibile la produzione a Mirafiori di un altro Suv a marchio Alfa. Anche un acerrimo avversario del Lingotto, il sen. Giorgio Airaudo di Sel, già numero uno dei metalmeccanici Fiom, ha riconosciuto che c’è stato un passo avanti (in un’intervista a «la Repubblica»), mentre l’attuale segretario generale Fiom, Maurizio Landini, ha ribadito la sua totale opposizione alle strategie Fiat, con un “niet” che sembra quello del ministro degli Esteri dell’Urss, Molotov. Perché la svolta di Marchionne? Molte le interpretazioni: l’avvio del tavolo nazionale sull’auto promosso dal ministro dello Sviluppo Zanonato, le autorevoli sollecitazioni alla Fiat e alla Famiglia (anche da parte dei vertici della Chiesa cattolica) per una riconsiderazione del ruolo di Torino, il miglior andamento dell’economia europea, che fa sperare in una ripesa del mercato automobilistico dalla seconda metà dell’anno prossimo, la sentenza della Corte costituzionale che ha comunque tagliato il nodo giuridico dei rapporti sindacali Fiat-Fiom sulla rappresentanza in fabbrica. Anziché chiudersi nel suo territorio, il numero uno della Fiat ha accettato le nuove sfide. E questo gli va riconosciuto, come hanno fatto i sindacati firmatari delle intese (Cisl, Uil, Sida, Ugl) e le istituzioni torinesi. Come ha osservato il prof. Berta, storico autorevole delle vicende Fiat, il “polo del lusso” non risolve tutti i problemi di Mirafiori, compresa la sua grande dimensione geografico-produttiva. Ma una cosa è la chiusura tout-court, l’altra cosa una significativa presenza produttiva, in grado di sollecitare anche un parziale sviluppo delle attività dell’indotto. Nessuno pensa di tornare agli 80 mila lavoratori del 1980, ma un polo di 5-6 mila operai, con Grugliasco, resta comunque una presenza positiva e significativa, da incoraggiare. E’ altresì importante (per non essere “piemontesi leghisti”) la smentita di Marchionne alla temuta chiusura dello stabilimento di Cassino, nel cuore del Lazio. Anche qui ci sarà un investimento, pur con cifre inferiori a quelle previste dal piano di «Fabbrica Italia». I vertici del Lingotto continuano inoltre a lavorare per la fusione Fiat-Chrysler, prevista per l’anno prossimo, dopo la definizione giuridica del valore delle azioni possedute dal sindacato americano dell’auto. Tutti gli osservatori danno per certo che la sede legale sarà a Detroit o in Olanda, come avvenuto già con la fusione Cnh-Iveco; si aprirà nei prossimi mesi la questione delicatissima del ruolo degli uffici del Lingotto, con i suoi cinquemila impiegati. Per questo il “tavolo” annunciato dal ministro deve entrare rapidamente in funzione (eventuale crisi di governo permettendo), perché la difesa dell’occupazione al Lingotto va inserita in una politica nazionale di rilancio delle attività manifatturiere, nella consapevolezza che la “rivoluzione digitale”, da sola, non basta a combattere la disoccupazione. Senza fabbriche, e non solo nell’auto, l’Italia si ridurrebbe a una dimensione turistico-culturale insufficiente a reggere una popolazione di 60 milioni di persone. Sugli uffici del Lingotto, John Elkann ha spesso indicato come obiettivo, dopo la fusione con Detroit, quello europeo: gli attuali organici saranno eccessivi? E i centri di ricerca e progettazione? Altri interrogativi riguardano la presenza Fiat nel campo editoriale, dopo il massiccio investimento nel Gruppo Rizzoli-Corriere della Sera. «La Stampa» e Publikompass saranno confinate in una dimensione regionale (Piemonte, Valle d’Aosta, Liguria di Ponente)? La “buona notizia” su Mirafiori lascia comunque aperti molti scenari, ma è positiva perché si è abbattuto un “tabù”, quello dell’inutilità della vecchia fabbrica, con una mission (il lusso) che ha uno spazio sia in Europa sia negli Stati Uniti. Contestualmente è stata premiata la tenacia di chi non ha mai perso la speranza sul ruolo automobilistico di Torino e del Piemonte. Un autorevole ministro del Lavoro, Carlo Donat-Cattin, avvezzo a mille trattative con i “giganti” del passato, da Vittorio Valletta a Giovanni e Umberto Agnelli, era solito ricordare che con la Fiat era necessaria una trattativa «dura e coraggiosa». Sembra che la storia si ripeta con l’italo-svizzero-canadese Marchionne, “duro” ma non irragionevole: senza Torino la Fiat sarebbe un’altra cosa. Mario Berardi
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