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Piccolo Santo di SimenonNell’inverno del 1963 Georges Simenon si fa costruire una nuova dimora a Epalinge, sul modello di una fattoria bretone, completamente bianca, con il tetto di ardesia, dove vive con i figli e la domestica friulana, Teresa Sburelin, che il suo editore italiano, Arnoldo Mondadori, gli aveva procurato due anni prima. La seconda moglie Denise, vittima di crisi depressive, passa da una clinica all’altra per disintossicarsi. Simenon trascorre un periodo abbastanza tranquillo, se non proprio sereno, e frequenta alcuni personaggi famosi suoi vicini, i Chaplin e gli attori David Niven e James Mason. Lo scrittore inizia l’ultima fase della sua feconda produzione narrativa: dal 1964 al 1972 scrive tredici Maigret e quattordici “roman-roman”, poi mette fine alla sua carriera di romanziere, abbandona la macchina per scrivere e affida al registratore i suoi pensieri e le sue riflessioni. Nell’ottobre 1964, in soli nove giorni, scrive «Le petit saint», uno dei suoi romanzi più ottimisti, decisamente in contrasto con il clima cupo e disperato della sua narrativa. Viene tradotto due anni dopo da Riccardo Mainardi per la Medusa di Mondadori con il titolo troppo letterale di «Piccolo santo», che dice poco o nulla al lettore italiano, e viene riproposto ora, a quasi mezzo secolo di distanza, col titolo assai più efficace e pertinente di «L’angioletto» (Adelphi, ottima traduzione di Marina Di Leo, pp. 197, euro 10). Si tratta di un romanzo stupendo, soprattutto nella prima parte, ambientata nella cornice de «La Mouf», la brulicante e pittoresca rue Mouffetard, una via popolare e malavitosa, curva e ripida, nel quartiere Maubert, sulla collinetta alle spalle del Pantheon, sfondo di molti Maigret e romanzi noir dell’epoca. Era lì che Simenon e la prima moglie Tigy andavano spesso a passeggiare quando volevano esplorare la città, nei primi tempi del loro soggiorno parigino. Come ricorda in «Memorie intime», in questa strada aveva incontrato un barbone la cui fotografia era stata usata per la copertina de «Il carrettiere della Provvidenza»: «E’ l’ambiente che ho scelto per il mio prossimo romanzo, un romanzo forse sordido ma che voglio sia ottimista, e che infatti lo sarà». Prima di iniziare la stesura, Simenon, che alloggiava al Georges V, va in tassì a vedere quella casa decrepita, «uno squallido rifugio per disperati» dove alloggiava il barbone. E la trova, quasi identica a come la ricordava, con il cortile, i bidoni dell’immondizia aperti, un laboratorio di falegnameria in fondo, la scala di ferro traballante, gli scalini consunti, le voci di donne e bambini. Il romanzo racconta l’infanzia miserabile di Louis Cuchat, un bambino timido e gentile nato alla fine dell’Ottocento, attraverso le sue percezioni e sensazioni. Vive in due stanze, cucina e camera da letto divisa in due da un lenzuolo, con la madre Gabrielle, venditrice ambulante di frutta e verdura, e i cinque fratelli e sorelle, Vladimir, il maggiore, Alice, i due gemelli Olivier e Guy e la più piccola, Emilie, che muore ancora neonata. Louis, mite e riservato, a scuola viene chiamato «l’angioletto» perché subisce le umiliazioni e le angherie dei compagni senza reagire né accusarli. Vladimir, appena undicenne, sottopone Alice a giochi erotici dopo aver guardato la madre, attraverso un buco del lenzuolo, con gli uomini che andavano a letto con lei. La madre, con una folta chioma di capelli rossi, è una donna piena di vita, volgare e attraente, che ama il sesso. Louis, nonostante l’ambiente sordido, è un bambino gioioso, un piccolo voyeur che osserva con naturalezza il viavai degli amanti nella casa e l’affaccendarsi dei vicini nella rue Mouffetard, il falegname, il negoziante di scarpe, il cocchiere, il lampionaio e il macellaio, fratelli questi ultimi di Gabrielle. L’evento più allegro della sua infanzia è quando, per la prima volta, accompagna la madre prima dell’alba a rifornirsi con il carretto di frutta e verdure alle Halles. Rimane stupito dall’animazione del mercato, dalle piramidi di viveri scambiati tra i grossisti e i rivenditori, respira gli odori che cambiano col ritmo delle stagioni. Il mondo segreto di Louis è un “libro di immagini” in cui nessuno riesce a penetrare. Uno degli amanti della madre, un ceco biondo e generoso, regala al bambino una scatola di colori, che farà scattare la sua futura vocazione, quella di pittore. Con i pochi franchi risparmiati lavorando come fattorino in un magazzino delle Halles, andrà in una cartoleria a comprare tubetti, tavolozza e pennelli. Basso di statura, viene riformato alla visita per il servizio militare ed evita così di partire per il fronte durante la Grande Guerra, che miete tra le sue vittime Olivier, uno dei gemelli, e il marito di Alice. Guy, l’altro gemello, è diventato disertore e vive in Ecuador. Louis affitta uno studio e comincia a vendere i primi quadri, apprezzati per i colori brillanti e luminosi. Meno convincente e un po’ frettolosa l’ultima parte, che arriva velocemente agli anni Sessanta, con Louis che, nonostante il successo, rimane un eterno bambino, la madre che si è risposata e vive in campagna e Vladimir, catturato come boss della droga e condannato a quindici anni di lavori forzati. E’ questo uno dei limiti di Simenon, preso dall’ansia di terminare il romanzo e già assediato da nuove idee per quello prossimo. Un’altra pecca frequente nei suoi libri è l’approssimazione delle date e della cronologia, che non controlla nella revisione per la fretta di consegnare il testo all’editore. Citiamo un solo esempio: nel 1919 Gabrielle ha cinquantaquattro anni e poche pagine dopo si arriva al 1945 quando la madre ha «superato i settant’anni da un pezzo», mentre in realtà dovrebbe averne ottanta. Louis rimane nella memoria del lettore come un personaggio straordinario, un occhio che guarda e un naso che respira, quasi “mangia” gli odori della strada. Anche quando da adulto frequenta i caffè degli artisti di Montparnasse, non dimentica mai la rue Mouffetard, che rimane il suo “cerchio magico”. Nelle «Memorie intime», così Simenon definisce questo romanzo: «Un romanzo ottimista, sì, proprio così, anche se si svolge in gran parte in quell’ambiente apparentemente disperato. Per la prima volta avevo composto una sorta di inno alla vita, un canto di speranza e di pace». Massimo Romano
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