Via Asti, il memoriale di Segre

Rigore, coerenza, dignità. Queste le parole che permeano e accompagnano il libro «Quelli di Via Asti» (non solo il volume, ma anche e soprattutto la vita) di Bruno Segre , classe 1918, il meno giovane tra gli avvocati in attività del foro torinese, definito «un combattivo alfiere dei diritti, della giustizia e della laicità mosso da una rara e insopprimibile esigenza di libertà».

Il libro, curato dal giovane storico torinese Carlo Greppi ed edito da Edizioni Seb 27 (pp. 172, euro 10), con prefazione di Diego Novelli, è stato scritto da Segre a metà del 1946 e tenuto in un cassetto nel suo studio per quasi settant'anni. E' stato stampato pochi giorni fa, grazie al lavoro di Greppi, che ha raccolto le pagine del manoscritto originale per portarle alla luce, dopo poche modifiche redazionali e l'inserimento di alcune ma sapide note.

«Quelli di Via Asti» racconta della prigionia, degli incontri, della vita, nel settembre del 1944, nella famigerata caserma/prigione di via Asti a Torino, la Caserma Lamarmora, sede del famigerato Upi (Ufficio politico investigativo) organo della Guardia nazionale repubblicana, nella quale Segre venne recluso.

Non solo cronaca, dove si oppongono nettamente «il bianco e il nero», ma una lucida descrizione di quella zona grigia che nella tremenda prigione di via Asti univa nella «quotidianità costretta» i torturatori e i patrioti: «Così Giraudo, che aveva il naso e le mascelle deformate dalle percosse dei fascisti, offriva una sigaretta a Barretti, che sulla tempia destra conservava la cicatrice di un proiettile dei partigiani. De Michelis, pallido e smunto, batteva amichevolmente una mano sulla spalla del ragazzino che impugnava lo Sten con cui non avrebbe esitato sparargli addosso... Vi accadevano cose inconcepibili in qualsiasi altra prigione e tali da meravigliare qualunque estraneo».

Una costrizione che non lascia spazio, però, ad alcuna indulgenza verso quegli «uomini di Salò», «variamente legati all'uno o all'altro apparato repressivo, che interpretano il dramma della guerra civile come un'occasione prima insperata poi disperata di diventare qualcuno o arraffare qualcosa». Dice Segre: «Nell'Italia di quei mesi è in atto uno scontro anche tra connazionali che si affrontano e a diversi livelli rischiano la vita per una diversa civiltà, una diversa idea di Italia e di mondo».

Poco è stato scritto negli anni dal dopoguerra ad oggi sul quanto successe in quella caserma, che oggi fa gola a molti speculatori edilizi, considerata la sua prestigiosa posizione. E questo libro, finalmente, riempie una pagina di storia torinese che fino ad oggi era rimasta bianca.

Nella memoria di chi scrive rimangono i giorni in cui, da militare di leva, leggeva la paura dei suoi commilitoni, arrivati da ogni parte d'Italia e sicuramente inconsapevoli del luogo in cui si trovavano, nel recarsi, anche se armati durante i servizi di guardia, negli infernotti della caserma dove erano state commesse le torture più efferate sui partigiani e le partigiane arrestate. I muri, infatti, gridavano e trasudavano dolore, quell'incommensurabile dolore che era stato inflitto a ragazzi «che avevano sognato il proprio avvenire e una famiglia, come tutti, ma ogni giorno il sogno svaniva nell'imprevisto. Nulla avevano fatto di male per subire il tragico dilemma di servire una causa obbrobriosa o di prendere la via della montagna».

Non presente nel libro, una particolare coincidenza della Storia. In quel settembre del 1944, mentre Segre varcava la porta carraia di via Asti prima e delle Nuove poi, un drappello di 14 ranger americani varcava attraverso il col Mayt, in alta valle Thuras, il confine tra Francia e Italia e arrivava, senza incontrare resistenza, fino a Fenestrelle in Val Chisone per capire se c'erano le condizioni per aprire un nuovo fronte e arrivare a liberare Torino. Come speravano i patrioti, dentro e fuori le carceri, e come viene genericamente riportato da Segre nel suo manoscritto.

Alessandro Battaglino



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