Un Leone carico di calda umanità

«Non mi sarei mai aspettato questo successo, per me era già una vittoria poter essere in concorso a Venezia con un mio documentario. Non bisogna avere paura di questa parola, il documentario è cinema a tutti gli effetti, e credo che questo premio lo confermi una volta di più. In ogni caso, dedico questo riconoscimento a tutte quelle persone che mi hanno permesso di entrare nelle loro vite con generosità. Alcune di loro, probabilmente, non sanno nemmeno di essere protagoniste del mio film…».

Le parole di Gianfranco Rosi, pronunciate sul palcoscenico della Sala Grande, al Lido, sabato 7 settembre, con in mano il Leone d’oro vinto con «Sacro Gra», riassumono il senso più profondo della 70ª Mostra di Venezia. Una Mostra contrassegnata dal definitivo “sdoganamento” del cinema del reale attraverso un lungometraggio, come quello di Rosi, lucido e autorevole (pur non essendo un capolavoro), apprezzato non solo dalla stampa italiana, ma anche da testate prestigiose come «Le Monde» e «Times». «Credo che la stampa internazionale abbia capito che il raccordo anulare, che con il suo abbraccio rumoroso stringe Roma come un anello di Saturno, sia un mondo a parte rispetto alla sola dimensione provinciale e possa elevarsi, con il suo carico di calda umanità, a luogo universale».

L’affresco urbano composto dal quarantanovenne regista nato ad Asmara, in Eritrea, con doppia nazionalità, italiana e statunitense, dal 1985 a New York (dove ora vuole tornare a insegnare cinema), rivela un approccio stilistico sensibile e un tono narrativo rispettoso dei caratteri delle persone coinvolte, includendo, in effetti, un vasto campionario esistenziale. I due anni passati da Rosi a esplorare a fondo il Grande raccordo anulare, a bordo di un camioncino, prima ancora di filmare con la sua telecamera ciò che scorreva sotto i suoi occhi, sono stati la premessa indispensabile per entrare in contatto con i protagonisti autentici di «Sacro Gra» e farsi aprire, senza timori, le loro porte di casa.

Personaggi altrimenti invisibili, curiosi, bizzarri, spontanei: un nobile piemontese decaduto e sua figlia prossima alla laurea, assegnatari di un monolocale in un moderno condominio ai bordi del raccordo; un botanico armato di sonde sonore e pozioni chimiche che cerca di liberare le palme della sua oasi dalle larve divoratrici; un principe dei nostri giorni che fa ginnastica con un sigaro in bocca sul tetto del suo castello, assediato dalle palazzine dell’informe periferia a un’uscita del raccordo e affittato come set per fotoromanzi; un barelliere in servizio sull’autoambulanza del 118, con una madre affetta da demenza senile, che dà soccorso e conforto girando notte e giorno sull’anello autostradale; un pescatore di anguille che vive su una zattera all’ombra di un cavalcavia sul Tevere.

Lontano dai luoghi canonici della capitale, il Grande raccordo anulare, superando il muro del suo frastuono continuo, si trasforma così in collettore di storie a margine di un universo in espansione. Come nei suoi lavori precedenti, «Below sea level» (girato nel 2008, storia di ordinaria follia di una comunità di homeless che vive a quaranta metri sotto il livello del mare, in una base militare dismessa in una zona desertica, a 250 km a sud-est di Los Angeles) ed «El sicario. Room 164» (realizzato due anni dopo, film-intervista su un killer pentito dei cartelli messicani del narcotraffico), l’attenzione di Rosi è prima di tutto geografica e, successivamente, umana.

«Mentre cercavo le location del film», ha detto il regista a Venezia, «portavo con me “Le città invisibili” di Calvino. Il tema del libro è il viaggio, inteso per me come relazione che unisce un luogo ai suoi abitanti, nei desideri e nella confusione che ci provoca una vita in città e che noi finiamo per fare nostra, subendola. Il libro percorre strade opposte, si lascia trascinare da una serie di stati mentali che si succedono, si accavallano. Ha una struttura complessa e il lettore può rimontarla a seconda dei suoi stati d’animo, delle circostanze della sua vita, come è successo a me. Questo libro mi è stato di stimolo nei tanti mesi di lavorazione di “Sacro Gra”, quando il vero raccordo anulare sembrava sfuggirmi, più invisibile che mai».

Il paesaggio urbano e il paesaggio umano, in «Sacro Gra», sembrano coincidere perfettamente, e questa millimetairca sovrapposizione costituisce il pregio evidente di un film ricco di spunti ironici ma intessuto da un filo di malinconica drammaticità.

Un’altra storia di solitudine, ma questa volta estrema e tradotta in immagini plasmate dalla finzione cinematografica, è quella raccontata da Tsai Ming Liang in «Stray dogs», ricognizione metropolitana, muta e dolente, su un padre che vive proponendo appartamenti lussuosi nelle strade di Taipei, aggrappato ad un cartello pubblicitario, e sui due figli che vagano per supermercati cercando di racimolare un po’ di cibo tra gli scarti di magazzino e i campioni alimentari in promozione. Il film del regista taiwanese, Leone d’oro a Venezia ’94 con «Vive l’amour», amplifica ulteriormente il repertorio contenutistico e stilistico di Tsai Ming Liang, esploratore sensibile e radicale delle fragilità relazionali. I «cani randagi» a cui fa riferimento il titolo del film sono proprio i tre protagonisti, che si lavano in bagni pubblici e dormono su un materasso in un edificio abbandonato, ai quali si aggiunge la figura femminile mancante al ristabilimento dell’armonia familiare, una donna che lavora in un centro commerciale e che accoglie genitore e bambini nella sua casa disadorna e decadente.

Lungo due ore e venti minuti, ipnotico e suggestivo, costruito su una scansione di inquadrature fisse che lascia affiorare sui volti dei personaggi ferite esistenziali mai sanate, «Stray dogs» segue una traiettoria narrativa persin troppo programmatica nel far convergere i destini dei protagonisti, e talvolta, ancor più che nei lungometraggi precedenti di Tsai Ming Liang, la dilatazione temporale delle sequenze, strumento consueto di scavo interiore, si fa estenuante. Ma alcuni momenti cruciali del film, come la contemplazione attonita di un dipinto che decora una parete del condominio in rovina, alzano di molti gradi la temperatura emotiva, lasciando allo spettatore il compito di riempire i vuoti e le attese, ciò che c’era prima, e non viene mostrato sullo schermo, e ciò che, con ogni probabilità, accadrà nell’immediato futuro. Nel ruolo del padre, Lee Kang Sheng si conferma pedina insostituibile sullo scacchiere interpretativo di Tsai Ming Liang. E la disperazione quotidiana di «Stray dogs», in un finale solo apparentemente immobile e immutabile, trova nel guardare e nel riuscire a vedere al di là di ciò che si osserva la sua condivisibile via di fuga.

Un'altra pellicola in gara a Venezia 2013 ci è sembrata importante, pur non avendo vinto nulla. Cinque terrazze di Algeri, cinque storie di ordinaria, dolorosa quotidianità scandite, lungo un’intera giornata, dai cinque inviti alla preghiera del muezzin, da prima mattina a notte fonda, così come prevede la fede musulmana. «Les terrasses» di Merzak Allouache è un’indagine sulla «complessa e tormentata società algerina», come ha detto lo stesso regista, dalla quale si deduce che le tensioni che sembravano svanite, dopo cinquant'anni di indipendenza e un decennio che ha visto il Paese insanguinato dal terrorismo, dalle strade di Algeri hanno raggiunto i tetti delle case. In passato, come ha ribadito Alluache, «luoghi tranquilli nei quali la gente del vicinato si incontrava e trascorreva il tempo a contemplare la baia, le colline, il mare».

Questi spazi, dove la vita sembra scorrere apparentemente tranquilla, sono diventati invece teatro di conflitti, di violenze, di morte. Lo spettatore se ne accorge fin dalle prime sequenze, quando un uomo viene torturato perché non vuole firmare un misterioso documento, quando lo zio di una bambina vive rinchiuso in una gabbia per ragioni inconfessate, quando il proprietario di un immobile viene aggredito dopo aver cercato di cacciare un’anziana donna che vive abusivamente sulla terrazza, quando un gruppo di ragazzi usa il tetto del palazzo come sala prove in vista di un’esibizione musicale che sfocia in un suicidio. E quando, nel momento meno opportuno, una piccola troupe televisiva si ritrova nello stesso luogo della tortura che apre il film e non sopravviverà, avendo scoperto ciò che doveva restare nascosto.

Le cinque terrazze, una per ogni quartiere della città, sono la metafora di una perdita di controllo sociale che Alluache teme e, che per questo, mostra nella speranza di spegnere rancori e vendette. Affidando alle note di una canzone eseguita per un matrimonio, sul finale del film, l’invito a godersi la vita, a guardare con più ottimismo il futuro e a non offuscare il sole della pace.

Paolo Perrone

 



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