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Via l'Imu salva il governo
Dopo l’autentico diluvio mediatico degli ultimi giorni, si corre seriamente il rischio di tediare il lettore ritornando ancora una volta sul decreto con cui il governo a fine agosto è intervenuto su fiscalità immobiliare, finanza locale, cassa integrazione guadagni e trattamenti pensionistici. Le numerose analisi pubblicate si sono prevalentemente concentrate, spesso in modo critico, sulla opportunità di abolire l’Imu e sul problema delle relative coperture finanziarie, valutandone credibilità quantitativa e opportunità in termini di politica economica. La confusione su tutta la materia risulta moltiplicata dalle modifiche che il provvedimento ha subito prima ancora della pubblicazione del decreto, con la reintroduzione (poi subito cancellata) della tassazione Irpef al 50 per cento delle rendite catastali degli immobili non locati («a disposizione»), dal rinvio alla legge di stabilità per la copertura del mancato gettito della seconda rata Imu e per gli interrogativi che ancora “ballano” in merito alla possibilità o meno di rinviare ancora o cancellare definitivamente l’aumento di un punto dell’aliquota ordinaria dell’Iva, problema che nel dibattito corrente è sempre stato trattato insieme a quello dell’Imu, come due esigenze fondamentali e inscindibili dell’azione di governo. Senza contare che è estremamente probabile che il decreto legge Imu subisca, in sede di conversione da parte delle Camere, ulteriori modifiche che potranno mutare in modo molto rilevante il quadro con cui oggi abbiamo a che fare. Ciò premesso, ci permettiamo di riprendere la questione in modo schematico, offrendo una lettura pragmatica dell’intricata materia, correndo il rischio di apparire poco “tecnici” e molto “politici”, ma nella consapevolezza che limitandosi ad una analisi tecnica il rischio è quello di offrire valutazioni molto teoriche e astratte, che non tengono conto della delicatezza del momento politico ed economico nazionale e internazionale, e non consentono pertanto di comprendere appieno la strategia sottostante all’azione del governo (nell’ipotesi, ovviamente, che una strategia esista, al di là di quello che a molti può apparire un mero “galleggiamento”). Aveva senso abolire l’Imu? Per molti il vero problema è questo, e giustamente si sottolinea che praticamente ovunque nel mondo esiste un prelievo fiscale che ha come base imponibile la proprietà dell’abitazione di residenza. Si fa osservare che sarebbe stato molto meglio intervenire sul cuneo fiscale allentando la tassazione sui redditi da lavoro, al fine di accrescere la disponibilità di reddito delle famiglie e ridurre i costi delle imprese. Inoltre, si valuta criticamente un provvedimento che sposta prelievo da chi è proprietario di casa alla globalità dei contribuenti, ponendo quindi significativi problemi di equità, giacché alla copertura finiscono per contribuire anche soggetti “non proprietari”. E’ difficile, sul piano tecnico, obiettare qualcosa di serio a tale impostazione, ripresa recentemente dal senatore Monti, ma d’altra parte, considerando come è stato costituito l’attuale governo, era inevitabile che il nome «Imu» dovesse essere cancellato dal nostro ordinamento, come prerequisito per la partecipazione alla maggioranza di una forza politica che aveva fondato tutta la sua campagna elettorale, in qualche caso fino al ridicolo, sulla promessa di abolire questa imposta. Dire «no» all’abolizione dell’Imu significava quindi dire «no» alla formazione dell’attuale governo, in un momento in cui esso rappresentava l’unica formula possibile con i numeri e le posizioni emerse nel nuovo Parlamento. Un prezzo da pagare alla stabilità, insomma. Ciò assodato, le coperture sono credibili? Va subito chiarito che le uniche di cui si può parlare sono quelle della prima rata 2013, quella non pagata a giugno, e ora definitivamente cancellata. Qui i tre pilastri sono l’abbattimento della detraibilità fiscale dei premi delle assicurazioni vita, il maggior gettito dell’Iva derivante dall’accelerazione del pagamento dei debiti della pubblica amministrazione (che accrescono il debito pubblico, ma non il deficit annuo perché riferiti a esercizi pregressi) e il gettito della sanatoria sulle slot machine irregolari. La prima misura, per quando sgradevole (penalizza il risparmio previdenziale) fornirà certamente maggior gettito, la seconda è al limite della “creatività” (ma probabilmente l’Europa ce la passerà) e sulla terza è meglio stendere un velo pietoso. D’altra parte, il decreto prevede una esplicita clausola di salvaguardia: se il gettito derivante dalle misure suddette, in base all’evoluzione degli ultimi mesi dell’anno, non fosse sufficiente a coprire il buco Imu, scatterebbero aumenti automatici delle accise (combustibili, tabacchi). Tali aumenti ovviamente nessuno li desidera, ma per disinnescare la mina occorrerà, nei prossimi mesi, un governo in carica in grado di prendere provvedimenti, altrimenti il pilota automatico incorporato nel fiscal compact produrrà i suoi effetti. Insomma, un altro paletto per garantire continuità all’esecutivo. Per le coperture della seconda rata e per le caratteristiche della nuova imposta sui servizi che sostituirà l’Imu a partire dal prossimo anno ha poco senso dissertare ora, con la certezza che nelle prossime settimane si arriverà a una profonda ridefinizione dei (pochi) punti fermi attualmente disponibili. I risparmi connessi alla spending review sono indipendenti dalla questione Imu, perché in ogni caso si sarebbero dovuti fare, quindi non possono essere definiti “aggiuntivi”. Gli unici dati certi sembrano essere, appunto, la scomparsa del nome Imu (per la felicità del centro-destra) e una maggior responsabilizzazione dei Comuni nel finanziamento della spesa locale (e del debito locale) a partire dal prossimo anno. Un fatto certamente positivo, che costringerà i sindaci a proporre agli elettori, accanto alle cose da fare, anche le maggiori imposte necessarie. Ma allora, se le cose stanno così, e se tutto sembra legato alla continuità del governo, ne valeva la pena? Qui la valutazione diventa inevitabilmente soggettiva, ma non si può fare a meno di osservare che governo in carica significa spread in ribasso e ciò è essenziale per un Paese che paga 90 miliardi di euro all’anno di interessi sul proprio debito. Inoltre, l’economia europea si sta riprendendo più rapidamente del previsto, e una relativa stabilità politica è giudicata dalle imprese e dai mercati essenziale per garantire al Paese la possibilità di agganciarvisi. Se la ripresa arriverà e sarà significativa, magari anche grazie al miglior clima di fiducia indotto dalla cancellazione dell’Imu per quest’anno e ad una ulteriore posticipazione dell’aumento Iva, tutti i termini del problema cambieranno, compreso quello delle coperture, poiché il maggior reddito genererà autonomamente maggior gettito fiscale, e renderà più lenti i vincoli di bilancio della pubblica amministrazione. Va anche compreso che una stabilità del quadro politico italiano rappresenta una condizione fondamentale per garantire un esito a noi favorevole delle imminenti elezioni politiche tedesche. Se l’Italia fosse senza governo, con lo spread alle stelle, sull’orlo di nuove elezioni magari dominate da insensatezze come l’uscita dall’euro e simili, in Germania potrebbero trarre vantaggio i movimenti populisti che puntano sull’autosufficienza di Berlino dall’Unione, mentre così sarà più agevole una riconferma delle forze politiche tradizionali e, passato il periodo elettorale, una revisione delle priorità tedesche nella direzione di una comune crescita europea. Per questo la continuità del governo in questo momento è un valore in sé. E Letta sembra saperlo molto bene. Antonio Abate
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