Le famiglie e un welfare tutto nuovo

 

Le famiglie italiane hanno bisogno di un welfare nuovo e affidabile, non variabile a seconda delle Regioni e dei Comuni: un welfare fatto di servizi, garanzie e opportunità. Chiedono anche il rifinanziamento del Fondo nazionale per l’infanzia (relegato oggi a sole 15 città maggiori) e del Fondo non autosufficienza, che non prevede alcuna risorsa almeno fino al 2014: solo se le donne vengono aiutate nel lavoro di educazione dei figli e di cura degli anziani possono scegliere in piena libertà se e come entrare nel mondo del lavoro, così come succede nel resto d’Europa.

Le famiglie si aspettano inoltre un «reddito di inclusione sociale» come misura di lotta alla povertà assoluta, un fenomeno in crescita. La crisi infatti ha condannato i padri alla cassa integrazione e i figli alla disoccupazione. Chiedono infine una riforma fiscale che garantisca più equità e per le giovani famiglie più liquidità, anche attraverso l’aumento delle detrazioni su beni di largo consumo.

Sono proposte molto concrete quelle che le Acli, l’Associazione cristiana dei lavoratori porterà all’attenzione del Paese in occasione della 47ma Settimana sociale dei cattolici italiani, prevista a Torino dal 12 al 15 settembre. Proposte che chiedono una svolta radicale a sostegno della famiglia: la crisi ha insegnato che il tempo delle attese è finito e che il balletto delle promesse mancate (dal quoziente famigliare ai bonus per i nuovi nati), al quale ci hanno abituato da anni, non è più accettabile. Se la famiglia è davvero la cellula della società, come tutti ritengono, è dalla famiglia che bisogna ripartire per uscire dalla recessione. Se invece ancora una volta non viene sostenuta con adeguate politiche di welfare sarà lo stesso Paese a rischiare la deriva.

I dati che le Acli presenteranno a Torino nel loro Documento (approvato dalla direzione nazionale a fine luglio) lanciano l’allarme su tre questioni principali: la formazione di nuove famiglie, l’impoverimento e le strategie di consumo, la conciliazione tra vita e lavoro. «In Italia le famiglie sono in difficoltà», ha detto senza giri di parole il presidente nazionale Acli, Gianni Bottalico. «Secondo Banca d’Italia il potere d’acquisto è caduto tra il 2007 e il 2011 del 5 per cento; diminuiscono inoltre le aspettative per una migliore qualità della vita, dato che il 65 per cento delle famiglie valuta il proprio reddito inferiore a quanto necessario per vivere e che il 28 per cento degli italiani è a rischio povertà». Secondo le Acli il ceto medio è quello più sofferente e siamo ormai di fronte a una vera e propria «emergenza sociale».

L’attuale impoverimento diffuso ha radici antiche, che risalgono indietro negli anni. «Prima di essere figlio della crisi, ne è padre», dicono le Acli, «come dimostra il fatto che la povertà relativa, che nel 2011 interessava l’11 per cento delle famiglie (oltre 8 milioni di persone, quella assoluta il 5,2 per cento, oltre 3,4 milioni di persone), già nel 2004 riguardava l’11,7 per cento. Intanto si sono ampliate le disuguaglianze in termini di distribuzione dei redditi e della ricchezza…». Morale? «Tutto questo ha portato il nostro Paese a concentrare il 46 per cento della ricchezza prodotta nelle mani del 10 per cento della popolazione, mentre è il ceto medio (dipendenti e pensionati) a contribuire per il 70 per cento della spesa pubblica». Il risultato di queste politiche è sotto gli occhi di tutti: la disuguaglianza sociale che si amplia diventa una disuguaglianza di opportunità anche tra le famiglie.

Non è un caso allora se in Italia i matrimoni sono in caduta libera. Secondo l’Istat il «nucleo classico», quello mamma-papà-bambino per intenderci, è un ricordo dei primi anni Novanta. Si è passati infatti dal 45 per cento del 1992 al 33 per cento di oggi, mentre sono in crescita le famiglie «unipersonali» e le coppie senza figli. Scrivono le Acli: «Nel documento della Cei è citato l’articolo 31 della Costituzione nei quali si afferma che “la Repubblica agevola con misure economiche la formazione della famiglia”. Rileviamo invece nei fatti una grave inadempienza: favorire le giovani coppie rimane un desiderio incompiuto. In Italia registriamo un continuo calo nel numero delle nozze celebrate. Le statistiche ci mostrano che ci si sposa sempre più in ritardo: gli uomini hanno in media 34 anni e le donne 31. Inoltre nel periodo di crisi economica sono raddoppiate le convivenze: l’Istat ne stima circa 600 mila tra celibi e nubili».

L’Italia indossa la maglia nera anche per le politiche di conciliazione vita-lavoro. «Nel documento dei vescovi», dicono le Acli, «si ribadisce il bisogno di incentivare con misure concrete la possibilità della donna di scegliere se e come entrare nel mondo del lavoro. Purtroppo però in Italia sappiamo dall’Istat che le donne con figli piccoli hanno una probabilità di lavorare inferiore al 30 per cento rispetto alle donne senza figli. Manca un’offerta di lavoro adeguata, come ha rilevato un’indagine Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori), perché il reddito da lavoro atteso è inferiore o di poco superiore ai costi da affrontare per i compiti di cura come colf, baby-sitter, mensa e bus scolastico». Non solo, in Italia l’asimmetria tra uomini e donne nella distribuzione dei compiti familiari rimane troppo elevata. «Anche se si riduce negli anni la distanza», dicono le Acli, «il carico di lavoro ancora oggi è per il 74 per cento sulle spalle delle donne». Tra le proposte che le Acli porteranno a Torino: l’aumento dei finanziamenti per la creazione dei nidi, l’istituzione del congedo obbligatorio di paternità della durata di due mesi al 70 per cento della retribuzione, la promozione di un piano di detrazioni e forme di voucher anche aziendali per far crescere un welfare di servizi alla persona e alla famiglia.

Senza la famiglia, dicono anche i vescovi italiani, l’Italia non può ripartire. La famiglia infatti è un bene anche dal punto di vista economico: non solo «consuma» beni, ma «produce» beni (relazionali) e servizi (fondamentali per un buon funzionamento della società). E invece dobbiamo constatare che ad oggi la «soggettività sociale» e il «ruolo pubblico» della famiglia non sono ancora adeguatamente riconosciuti. Le Acli lo sanno e infatti nel documento che presenteranno a Torino puntano il dito contro il graduale impoverimento economico, ma si potrebbe dire anche civile, che hanno depresso il ceto medio. Famiglie cioè che pur lavorando hanno paura di cadere in quella maledetta «zona grigia» preludio della povertà.

«Il rischio di diventare poveri che bussa alla porta anche di tante famiglie soprattutto del ceto medio», si legge nel documento, «ha inibito nel corso degli anni la possibilità di investire, di fare progetti, di guardare con serenità all’idea di avere più figli», quando di non dover scegliere tra la gioia della maternità e il lavoro. «In questo impoverimento è stato determinante l’erodersi del welfare e il suo mancato rilancio: da oltre un decennio assistiamo al rischio di scivolare nella povertà non solo da parte di coloro che perdono il lavoro, ma anche delle famiglie dove qualcuno si ammala gravemente, dove c’è un disabile, dove un anziano ha bisogno di una assistenza costante, dove c’è un divorzio». In Italia le famiglie vivono con la sempre più diffusa percezione che un singolo episodio possa ridurre drasticamente la proprie possibilità, se non addirittura minare a fondo i propri progetti. Una dannata «sensazione di vulnerabilità» che rischia di compromettere la fiducia nel futuro e spesso anche negli altri.

Per uscire dal tunnel, dicono le Acli, occorre una netta inversione di tendenza. Non si tratta di chiedere altre risorse a un Paese in recessione, ma di assumere una diversa prospettiva. Occorre cioè considerare la «dimensione familiare» come criterio valutativo di ogni politica: sociale, economica, finanziaria, culturale. E’ arrivato il tempo, dicono le Acli, di «sostenere le famiglie nella loro capacità di svolgere quei compiti, anche pubblici, che sono in grado di realizzare, da sole o in forme associative e solidaristiche». Solo così le singole famiglie possono uscire dal privato e trasformarsi in una ricchezza per la società.

Da Torino il messaggio è chiaro: il Paese uscirà dalla crisi solo se anche le famiglie saranno messe nella condizione di rialzarsi in piedi e rimboccarsi le maniche. Una «società a misura di famiglia», questo chiede la 47ma Settimana sociale dei cattolici italiani.

Cristina MAURO



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