Venezia, il peso del passato

 

Inaugurata dalle splendide immagini di «Gravity» di Alfonso Cuaròn, con George Clooney e Sandra Bullock a vagare nello spazio nel disperato tentativo di sopravvivere e trovare una soluzione per tornare sulla Terra, la 70ª Mostra del cinema di Venezia, al momento in cui questo giornale va in stampa, ha proposto a critica e pubblico poco più della metà del suo cartellone. Variopinta e articolata, la selezione operata dal direttore della rassegna lagunare, Alberto Barbera, ha offerto parecchi spunti interessanti, con qualche passaggio a vuoto ma con una sostanziale tenuta qualitativa. Quel che segue è una valutazione dei titoli più significativi transitati, per ora, sugli schermi del Lido.

Family Life

Una quotidianità fatta di gesti comuni, di piccole cose. Il rientro a casa dal lavoro del marito, un poliziotto di una piccola cittadina tedesca, le premure casalinghe e la tenera attenzione verso di lui e la loro bambina da parte della moglie. Ma in «Die frau des polizisten», il nuovo film di Philip Gröning, la descrizione apparentemente anonima della quiete domestica di una giovane coppia svela qualcosa di più profondo, una tempesta affettiva che produce rabbia e percosse, fratture e violenze.

Lungo quasi tre ore, riassunto in una sessantina di brevi capitoli, introdotti da continue didascalie e chiusi dalle dissolvenze in nero, «Die frau des polizisten», come il film più noto di Gröning, «Il grande silenzio» (incentrato sui monaci della Grande Chartreuse), vive di azioni mute, di sguardi, contatti, momenti dove le parole sono assenti, restituiti sullo schermo con piena fluidità e naturalezza. Nelle mani del regista tedesco la macchina da presa va oltre il suo ruolo di semplice strumento di registrazione visiva, e nell’accompagnare lo spettatore all’interno delle mura di casa della giovane coppia, si fa quasi presenza animata, con la sua estrema sensibilità nell’osservazione ravvicinata dei corpi e dei volti dei protagonisti.

La violenza domestica, nel film di Gröning, affiora improvvisa per poi scomparire e colpire nuovamente, una violenza subìta dalla moglie del poliziotto per preservare, ad ogni costo, gli equilibri familiari e salvaguardare il futuro della propria bambina, facendola crescere con tutto l’amore possibile. «Die Frau des Polizisten», in questo senso, è certamente un film sul buio che può offuscare l’animo umano, ma è anche una riflessione sul delicato ruolo genitoriale e, soprattutto, un invito all’amore. Un amore più forte anche della propria vita.

Sulle prime immagini di «Miss Violence», invece, che si sforzano di mostrare una famiglia felice intenta a festeggiare il compleanno di una ragazzina undicenne, sembrano pesare, fin da subito, gli sguardi smarriti di una gioia fittizia e irreale. Una finta allegria, tra le mura domestiche in un condominio come tanti, imposta da un nonno ancora giovane che fa da padre alle quattro donne che compongono la famiglia, sconfessata, pochi attimi dopo il brindisi e le foto di rito, dall’’irruzione improvvisa e tragica della morte. Da quel momento, dalla caduta nel vuoto della festeggiata, che si butta giù dal balcone di casa con un sorriso liberatorio stampato sul volto, si capisce quale direzione prenderà il film del regista greco Alexandros Avranas, che sulla scia di altri lungometraggi ellenici come «Alpis» e «Dogtooth», presentati negli anni scorsi a Venezia e a Cannes, affronta il disagio esistenziale e la disgregazione familiare con la stessa freddezza stilistica di quei titoli e la stessa radicalità contenutistica.

Dietro le rigorose sequenze di «Miss Violence», composte da molte inquadrature fisse, pochi dialoghi ed eloquenti silenzi, dietro i gesti controllati e pacati dei personaggi, si nasconde lo sbriciolamento del nucleo familiare, in cui le donne sono vittime di soprusi, sottomissioni, violenze. E’ ciò che non viene mostrato, nel film di Avranas, più di ciò che invece appare sullo schermo, a raggelare il pubblico, mettendolo progressivamente a conoscenza di una degradazione morale che il regista greco sembra voler giustificare con il crollo del proprio Paese, stremato da una gravissima crisi economica, riassunta dal tentativo fallito del nonno di tornare a lavorare in cambio di un misero stipendio. La calcolata, ordinata strategia quotidiana dell’uomo, che ovatta con un perbenismo di facciata un’anima nerissima, è il perno di un film disturbante ma profondo. Un “gruppo di famiglia in un inferno” che allarma e scuote le coscienze.

Cinquant’anni prima

Applausi scroscianti, al Lido, alla proiezione riservata alla stampa di «Philomena», il nuovo film dell’inglese Stephen Frears, tratto da una storia vera, quella di una anziana donna rimasta incinta giovanissima, nell’Irlanda del 1952, ripudiata dalla propria famiglia per la vergogna di quel bimbo in arrivo fuori dal matrimonio, richiusa in un convento, costretta a dare in adozione il piccolo a una coppia americana e a firmare un documento di rinuncia a ogni diritto sul bambino. Ambientato nel 2003, «Philomena» è il racconto, cinquant’anni dopo il parto, di una madre alla ricerca del figlio. Una ricerca piena di speranze e di timori, condotta da un ex giornalista della Bbc e spin doctor del governo Blair, restituito brillantemente sullo schermo da Steve Coogan, ma avviata dalla donna, interpretata magnificamente da Judi Dench, sempre sostenuta, nonostante tutto, dalla fede.

Guidati da una sceneggiatura che mescola con calibrata alchimia dramma e commedia, intrecciando tristezza e ironia nella migliore tradizione british, i due protagonisti reggono sulle loro robuste spalle il peso dell’identificazione emotiva con il pubblico, giocando benissimo di sponda, nella caratterizzazione delle rispettive psicologie, e concedendo allo spettatore gli opportuni spazi di commozione e i momenti destinati invece al sorriso. In alcune sequenze la contrapposizione tra l’ateismo dello scaltro reporter e la devozione religiosa dell’anziana signora si fa persin troppo programmatica, ma il film di Frears, pur non risparmiando critiche alla Chiesa cattolica, attribuisce a Philomena, nonostante il dolore per una ferita ancora aperta, la volontà rigenerante del perdono. Un bisogno di giustizia, il suo, capace di andare oltre le vicende terrene per cercare più in alto, in cielo, le risposte definitive.

«Parkland» di Peter Landesman, invece, ripercorre le caotiche vicende verificatesi a Dallas, in Texas, il 22 novembre del 1963, il giorno in cui fu assassinato il presidente John F. Kennedy. Incentrato sugli agenti dei servizi segreti, sui poliziotti locali, sulle infermiere e sui medici del Parkland Memorial Hospital, dove il presidente ferito fu ricoverato, su Abraham Zapruder, la cui cinepresa a 8mm riprese l’assassinio, e sulla madre e sul fratello di Lee Harvey Oswald, il film intreccia insieme le prospettive di un gruppo di persone comuni catapultate all’improvviso in circostanze straordinarie.

Girato e scritto in modo naturalistico, con la tensione del tempo reale, «Parkland» riprende l’assassinio del presidente Kennedy e le sue immediate conseguenze come se tutto ciò non si fosse verificato cinquant’anni fa, ma al giorno d’oggi. L’intento non è di creare uno spaccato d’epoca, ma un film contemporaneo sulle onde d’urto della violenza. Con risultati giudicati abbastanza ininfluenti da una certa critica a Venezia, ma, a nostro giudizio, appassionanti e utili a futura memoria.

Lo sguardo sull’oggi

Fino a che punto è lecito difendere la causa ambientalista, progettando l’esplosione di una diga idroelettrica e contestare, così, una politica di sviluppo energetico giudicata profondamente sbagliata? E’ questa la domanda che muove le vicende di «Night Moves», il film con cui Kelly Reichardt torna al Lido a tre anni da «Meek’s Cutoff». Protagonisti tre ambientalisti radicali, un ex marine convinto della necessità di una protesta eclatante, una ragazza borghese che ha tagliato i ponti con la propria famiglia, e un giovane che lavora in una fattoria biologica ed è animato da una forte spinta ideologica. Il tema dell’ecoterrorismo, nella prima parte del film, è presentato con lucidità, senza enfasi ma anche senza filtri, con la preparazione minuziosa del piano eversivo che segue, sullo schermo, le regole narrative del thriller, con le dovute alternanze tra attese e azione.

Ma quando l’opera viene messa in atto, attraverso un motoscafo imbottivo di esplosivo, e i tre apprendono che un campeggiatore è scomparso, forse morto, le conseguenze di quel gesto producono inattesi sensi di colpa: lì, a quel punto, Night Moves perde d’intensità, la sceneggiatura, fino a quel momento ben controllata, si sfilaccia, il lavoro sulle psicologie dei personaggi si limita a sguardi persi nel vuoto e a telefonate non volute. La paura di essere scoperti spezza l’equilibrio fra i tre complici, in particolare fra i due ragazzi interpretati da Jesse Eisenberg e Dakota Fanning, e le paranoie sfociano in omicidio. Il punto di non ritorno, che chiude il film della Reichardt senza aver convinto lo spettatore sul bisogno di spregiudicatezza della causa ambientalista, in una doverosa equidistanza dalle vicende, ma, proprio per questa neutralità narrativa, senza aver coinvolto emotivamente il pubblico, messo più che altro di fronte agli eventi.

Paolo Perrone



SIR | Avvenire.it | FISC

PRELUM Srl - P.I. 08056990016