Nostalgia per Berlino

Berlino tra le due guerre era una città bellissima, la più moderna e attraente città europea, sordida e insieme luminosa, ricca di novità culturali e aperta al nuovo. Soprattutto negli ultimi anni della Repubblica di Weimar e prima dell’avvento del nazismo, a cavallo degli anni Venti e Trenta, si affermò come una vera e propria icona della modernità.

Elias Canetti, nel segmento della sua autobiografia relativa agli anni Venti, «Il frutto del fuoco», dedica una quarantina di pagine memorabili relative al suo soggiorno berlinese durante tre mesi del 1928, sufficienti per cogliere il clima di quel periodo. Dal culto dell’americanismo («per il numero delle insegne luminose e delle automobili, Berlino a quell’epoca gareggiava con New York») al clima di libertà di una città dove «tutto era permesso» e i divieti «cadevano come rami secchi», e «tutto era permeabile a tutti, l’intimità non esisteva» o «era una messa in scena con la quale si sperava di vincere l’intimità di un altro». Berlino diventa una città dello spettacolo, dove «bisognava farsi vedere in continuazione», «mettersi in mostra»; «assaliti da ogni parte e senza riguardi dagli stimoli più diversi e contraddittori, non si aveva il tempo né per capire né per riflettere». In questo ritmo febbrile e caotico, tutti sono attratti dalle novità, subito rimpiazzate per far posto ad altre novità: «Ogni giorno giungeva a Berlino qualcosa di nuovo a cacciar via il vecchio, che a sua volta era stato nuovo tre giorni prima», «ogni novità era buona, non foss’altro perché non sarebbe rimasta tale per molto tempo. Tutto ciò che era nuovo veniva accolto a braccia aperte, ma intanto la gente già si guardava intorno alla ricerca di altre novità, perché l’esistenza e il rigoglio di quell’epoca, a suo modo davvero grande, dipendeva dal fatto che le novità si susseguivano ininterrottamente».

In questa lucida fotografia di Canetti s’inseriscono perfettamente tre libri usciti di recente ma pubblicati in quegli anni, che disegnano il clima e l’atmosfera di allora: «Addio a Berlino» di Christopher Isherwood, «Berlino segreta» di Franz Hessel e «A passeggio per Berlino» di Joseph Roth.

«Addio a Berlino», da trent’anni non più reperibile sul mercato, viene riproposto da Adelphi con una nuova traduzione di Laura Noulian (pp. 252, euro 18,00), dopo l’edizione pionieristica di Longanesi nel 1944 a Roma durante l’occupazione tedesca e quella degli anni ’60 di Garzanti. Chistopher Isherwood (1904-1986), scrittore inglese amico del poeta Auden, soggiornò a Berlino tra il ’29 e il ’33 e da questa esperienza trasse tre romanzi, «Ritratto di famiglia» (1932), «Il signor Norris se ne va» (1935) e «Addio a Berlino» (1939).

Il narratore autobiografico, Chris, all’inizio del libro definisce subito la sua posizione rispetto alla vicenda: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passiva, che registra e non pensa». Atteggiamento che riprende quello del regista russo Dziga Vertov: «Io sono il cine-occhio. Sono un occhio meccanico». Il rapporto tra letteratura e cinema è molto sentito da Isherwood, che nel 1945 pubblicherà «La violetta del Prater», storia della realizzazione di un film musicale a Londra nel ’33-’34 con la regia di un ebreo austriaco, mentre a Vienna avvengono le prime repressioni naziste. L’autore contrappone la frivolezza del cinema (il soggetto del film è l’amore di una fioraia per un principe in incognito) alle atrocità della storia.

«Addio a Berlino» è forse il capolavoro di Isherwood, un romanzo non-romanzo in sei parti in cui dispiega tutto il suo talento, che consiste nella leggerezza incantevole con cui sfiora il tragico e il grottesco. Il ritmo tutto visivo del racconto ispirerà, oltre trent’anni dopo, il film «Cabaret» (1972) di Bob Fosse, con una straordinaria Liza Minnelli. Chris, che fa lo scrittore e ha scritto un romanzo, «Tutti i cospiratori», che ha venduto soltanto cinque copie, per mantenersi dà lezioni private di inglese. Vive in una pensione diretta dalla signorina Schroeder, stravagante ma simpatica affittacamere di mezza età che lo chiama, storpiando alla tedesca il suo cognome, Isservut, e tra i pigionanti ci sono una bionda e florida prostituta, una robusta bavarese nazista, ballerina di music hall, e il barman di un locale notturno.

Quando arriva Sally Bowles, una cantante inglese dalle labbra rosso ciliegia e le unghie smaltate verde smeraldo, con un basco giallo canarino e una logora pelliccia, il racconto s’infiamma improvvisamente. Sally ha molti amori, ma nessuno le resta fedele, a partire dal pianista che l’accompagna nelle sue canzoni. Ogni notte, in cambio di una cena e di un po’ di denaro, va a letto con uomini diversi. Talvolta viene ingannata e alleggerita dei soldi e non le resta che piangere sulla spalla di Chris. Durante un’estate sul Baltico, il narratore conosce Otto, un ragazzo povero diciassettenne, che lo ospiterà nella sua soffitta, dove vive con una sgangherata famiglia operaia: una madre tisica, un padre facchino sempre ubriaco, un fratello nazista e una sorellina grassa e piagnucolosa. Sembrano pagine dickensiane, culminanti nella visita di Chris che accompagna Otto al sanatorio dove è stata ricoverata la madre.

Un’altra esperienza del narratore è la conoscenza dei Landauer, ricca famiglia di commercianti ebrei, di cui frequenta la figlia diciottenne Natalia. Chris ha la pessima idea di farla incontrare con Sally in un caffè: i pettegolezzi amorosi della cantante urtano il puritanesimo della ragazza, che vive di musica, letteratura e arte. Intanto a Berlino si avverte il senso della catastrofe imminente: bande di nazisti fracassano le vetrine dei negozi ebraici, mentre i giovani comunisti si divertono nelle bettole. Quando Chris torna in Inghilterra, «il sole splende e Hitler è il padrone della città».

«Berlino segreta» (1927) di Franz Hessel, che appare ora per la prima volta in italiano (Elliot, trad. di Eva Banchelli, pp. 148, euro 16,50), mette in scena soubrette di cabaret, dandy, affaristi, antiquari e banchieri, figure di una borghesia squattrinata e decaduta che abita nei quartieri occidentali della città, sorpassata dalla nuova borghesia di speculatori e avventurieri degli anni Venti, favorita dall’inflazione e sbeffeggiata dai disegni grotteschi di Grosz e Dix. Al centro della storia, che dura ventiquattr’ore nella primavera del 1924, c’è la flânerie di uno studente, Wendelin, che corteggia Karola, moglie di un professore di filologia, Clemens, il quale così lo catechizza: «Non farti coinvolgere, godi tutto senza possedere nulla. Il possesso deruba».

Questa pittoresca fauna berlinese trova un altro suo cantore in Joseph Roth, che all’inizio degli anni Venti scrive per diversi giornali fulminei ed essenziali réportage su figure di prostitute, accattoni, ballerine, artisti squattrinati, sullo sfondo di caffè, cinema, grandi magazzini, cabaret popolari, luna park, osterie del ghetto. Una selezione di questi articoli, quasi dei miniracconti, viene ora riunita sotto il titolo di «A passeggio per Berlino» (Passigli, trad. di Vittoria Schweizer, pp. 122, euro 10). La lezione che ci lascia Roth è che «solo le inezie della vita hanno valore»: un mendicante che suona la tromba, un cane che insegue una palla, un cameriere che tenta di schiacciare una mosca sulla terrazza di un caffè.

Massimo Romano


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