Ora tocca alle imprese

La perdurante delicatezza del momento presente impone al governo di non deflettere dal programma enunciato al momento dell’insediamento, inteso a coniugare il progressivo risanamento della finanza pubblica con l’adozione di misure atte a promuovere la crescita.

La sostanziale correttezza dei primi passi, apprezzati anche dalla Commissione europea, non ha tuttavia celato l’emergere di tensioni e l’affollamento di obiettivi non direttamente collegabili alle scelte programmatiche sulle quali hanno preso consistenza le “larghe intese”. Tenere insieme in un quadro coerente le molteplici finalità è compito arduo, soprattutto se sullo sfondo e in alcune delle forze partecipanti, continuano a non essere estranei futuri obiettivi elettorali. In questa prospettiva, l’invito del senatore Monti ad uscire dalle indicazioni generiche per scendere ad una precisa fissazione di obiettivi, condivisi in termini di contenuti e di tempi è giunto quanto mai opportuno.

La situazione economica da affrontare è particolarmente complessa per l’intrecciarsi degli andamenti ciclici derivanti dalla crisi generale, non ancora superata, con gravi carenze strutturali, maturate nel corso degli ultimi trent’anni senza che si provvedesse concretamente ad affrontarle. Ne è derivata una miscela risolvibile solo in un arco di tempo non breve e soprattutto con unità di intenti, nella consapevolezza dei gravosi oneri non solo finanziari dei quali farsi carico.

In Europa, ma soprattutto in Italia, s’è verificata un’incredibile estraneità di fatto rispetto ai grandi cambiamenti valoriali, geopolitici, tecnologici che hanno interessato tutto il pianeta. Nel nostro Paese si è vissuto nella convinzione di possedere la strategia vincente per ogni fase della storia nella quale si era coinvolti: salvo poche eccezioni s’è continuato a produrre le stesse cose fidando su innovazioni più di apparenza che di sostanza, cullando se stessi in alcuni miti ritenuti eternamente validi quali la validità, sempre e in ogni caso, della piccola dimensione o la supplenza dei distretti alla perduta grande dimensione d’impresa. Le analisi sull’evoluzione dei profili tecnologici dei prodotti dell’industria nazionale dimostrano impietosamente che di decennio in decennio non s’è verificato alcuno scostamento significativo. L’avanzamento tecnologico sembra non avere sfiorato le nostre produzioni se non in qualche raro caso. Interi settori industriali sono pressoché spariti dalla scena per risorgere in altre parti del mondo; altri si sono impoveriti e ridotti di importanza; assenti o quasi sono state le attività produttive debitrici dei più avanzati livelli scientifici. Chi aveva impiegato risorse nei comparti tramontati, quando non le ha perse, le ha spostate in Paesi in fase di forte evoluzione. Quanto è accaduto per i capitali si è verificato per le forze lavoro, in specie per quelle più qualificate.

In questo quadro, duramente espresso nell’ultima relazione della Banca d’Italia, puntare, come si deve, alla crescita, significa scegliere di recuperare le posizioni perdute, ovvero ridare vita ad una sana accumulazione del capitale materiale e immateriale, orientare verso nuovi obiettivi il modello di specializzazione produttiva, agire di conseguenza sull’attività di ricerca scientifica, sul processo di formazione scolastica e universitaria, sullo stesso modello di welfare e sul funzionamento dell’amministrazione pubblica. Un compito immane, rispetto al quale i piccoli passi, per quanto preziosi, sono certamente insufficienti.

Della complessità del problema c’è consapevolezza in più d’un politico; quanto invece sembra mancare, almeno per chi guarda a questi fenomeni dall’esterno, è la trasmissione di questa presa di coscienza alle organizzazioni partitiche nelle quali i politici sono inseriti, apparentemente interessate in prevalenza a perpetuare se stesse e il proprio grado di potere.

Sarebbe però errato credere che l’avvio della risoluzione di detta complessità sia compito esclusivo della politica; esso tocca tutti e in modo particolare le imprese, molte delle quali debbono aprirsi ad un mondo nel quale la continuazione acritica della propria esperienza, senza puntare all’innovazione di prodotto, alla presenza in mercati nuovi sebbene difficili quanto a competitività, alla condivisione del potere con nuovi soggetti apportatori di risorse finanziarie, si risolve nel vivacchiare senza sviluppo. In questo senso il richiamo del premier Letta alle imprese a non trovare più alibi nel generare posti di lavoro, utilizzando i margini finanziari riacquisiti a livello europeo, assume un preciso significato.

La risposta positiva a questo tipo di sollecitazione può venire soltanto da imprese capaci di fare propria questa sfida operando con opportune strategie e rinunciando a invocare il sostegno pubblico. Nel panorama dell’industria italiana tali tipi di aziende sono divenute progressivamente meno numerose, tanto da autorizzare a pensare che, tra le carenze dell’apparato produttivo, vada ormai annoverata una certa carenza di imprenditorialità.

La componente pubblica deve certamente svolgere un ruolo, ma questo si deve concretare nel generare le condizioni necessarie all’esplicarsi di un’attività aziendale moderna capace di abbandonare comparti produttivi prossimi alla maturità o in fase di declino per entrare in comparti nuovi e innovativi. E’questo il senso delle affermazioni della signora Merkel, orientate ad invocare la mobilità dei fattori produttivi, compreso il lavoro. In concreto questo significa assicurare la possibilità di una crescita professionale dei lavoratori assicurando una formazione adeguata, orientata a migliorare i livelli di apprendimento e a fare maturare nuove competenze. Allo stesso modo deve essere oggetto di intervento politico lo snellimento dell’amministrazione pubblica, soprattutto per quanto concerne la fase attuativa dei provvedimenti di governo o legislativi adottati.

Nel trattare il tema del ritrovamento della via dello sviluppo il governatore della Banca d’Italia ha chiaramente sottolineato l’esigenza che l’obiettivo sia condiviso e ognuno faccia la sua parte. In questo contesto anche le imprese devono interrogarsi se, così come sono, rispondono alle esigenze dell’attuale fase storica. In non pochi casi è da ritenere che oltre a chiedere nuovi interventi, esse debbano rimodellare se stesse.

Giovanni Zanetti

 



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