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Zweig, senza limitiCome è accaduto alla Némirovsky, anche Stefan Zweig, nato a Vienna nel 1881 e morto suicida in Brasile insieme alla moglie Lotte nel 1942, essendo scaduti i diritti d’autore che deteneva Adelphi è diventato terreno di caccia degli editori. Con i suoi racconti di impeccabile intreccio e di grande sottigliezza psicologica, tanto da far invidia a Freud, e le sue biografie di scrittori e personaggi storici, Zweig è stato il più popolare scrittore di lingua tedesca tra le due guerre. Ci ha lasciato almeno due capolavori, scritti negli ultimi anni della sua vita: «Novella degli scacchi» (1941), memorabile partita tra un ariano e un ebreo durante un viaggio per mare attraverso l’Atlantico, e «Il mondo di ieri», intensa autobiografia percorsa dalla nostalgia per la fine dell’impero austroungarico. Tra le molteplici uscite segnaliamo due racconti, «24 ore nella vita di una donna» (Donzelli, trad. di Luisa Coeta, pp. 157, euro 22,50, impreziosito da 17 tavole di Federico Maggioni), scritto nel 1927, in cui s’intrecciano la passione d’amore e quella del gioco nella cornice della Costa Azzurra, e «Viaggio nel passato» (Ibis, trad. di Anna Ruchat, pp. 84, euro 8,00), scritto nel 1929, storia di una passione che il tempo e lo spazio hanno diluito. Anche le sue biografie, non più disponibili sul mercato da decenni, vengono ora ripubblicate: «Brasile terra del futuro» (Elliot, trad. di Vincenzo Benedetti, pp. 244, euro 18,50), «Maria Antonietta» (Castelvecchi, trad. di Lavinia Mazzucchetti, pp. 430, euro 19,50), «Dostoevskij» (Castelvecchi, trad. di Mario Britti, pp. 121, euro 14,50) e «Balzac» (Castelvecchi, pp. 375, euro 22). «Dostoevskij» uscì nel 1920 come terzo elemento di una trilogia biografica composta da Balzac e Dickens e fu tradotto da Sperling e Kupfer nel 1932. Zweig vede in lui «il trasgressore dei limiti», il narratore del «sottosuolo» dell’anima, l’uomo «murato per sempre nella prigione della letteratura» alla ricerca disperata di Dio, perso a inseguire un sogno messianico di redenzione, l’idea che la Russia salverà il mondo. Le sue storie riflettono un «realismo visionario» popolato da personaggi, donne tisiche, laceri studenti, perdigiorno, affittacamere, intellettuali sognatori, che si muovono tra sudice bettole e stanze strette e buie. Il bisogno spasmodico di denaro, il ritmo febbrile della scrittura e della vita accomunano Dostoevskij a Balzac, autore molto amato e ammirato da Zweig, che tornerà su di lui vent’anni dopo con un’ampia biografia uscita postuma nel 1946, «Balzac. Il romanzo della sua vita», riproposto nella bella traduzione di Lavinia Mazzucchetti uscita nel 1950 nella Medusa di Mondadori. A vent’anni, questo «giovanotto tarchiato e robusto, dalle labbra carnose», il collo taurino, i denti guasti, le gambe corte, un volto plebeo, da oste o commerciante di vini, decide che vuole fare lo scrittore e si sistema in una miserabile soffitta di Parigi. Con vari pseudonimi scrive romanzacci popolari di genere gotico, ma anche libelli, articoli, cataloghi pubblicitari, senza aver paura di prostituirsi con il sottobosco letterario. Trascurato dalla madre, che ha ucciso la sua infanzia con l’assenza di affetto e i continui rimproveri, cerca nelle donne l’elemento protettivo e materno. Il suo primo amore, Laure de Berny, sposata con tre figli, ha quasi il doppio dei suoi anni e sarà per lui madre, amica, consigliera e fedele alleata sino alla morte. Gli amori successivi ripetono uno stesso cliché: donne aristocratiche, ultratrentenni, sposate ma trascurate dal marito, che Balzac seduce con meravigliose lettere in cui rivela il suo animo appassionato. La duchessa de Castries, una vedova paralizzata per una caduta da cavallo, la contessa Guidoboni-Visconti, una inglese che avrà un figlio da lui, Zulma Carraud, una donnina di provincia che gli è molto affezionata ed è prodiga di consigli, gli rimprovera la fretta con cui scrive i suoi libri, intuisce il suo genio e soffre nel vederlo dissipare il suo talento. Balzac è un affarista privo del senso della realtà. Per questo tutte le sue imprese commerciali falliscono: non ancora trentenne ha già fatto bancarotta come editore, tipografo e proprietario di una fonderia di caratteri. Ha accumulato centomila franchi di debiti, ripianati dalla famiglia e Laure de Berny. In seguito si lancerà in altre imprese pazze e assurde: una piantagione di ananassi nei dintorni di Versailles e lo sfruttamento di miniere d’argento in Sardegna. Affetto da snobismo e manie aristocratiche, si circonda di un lusso superfluo di eleganza pacchiana: vasi di Sèvres, porcellane cinesi, mobili e quadri di dubbia autenticità, una marsina azzurra con bottoni d’oro, panciotti di seta e di broccato, un bastone da passeggio tempestato di turchesi. Per sfuggire ai creditori cambia spesso casa e si nasconde sotto falso nome. Scrive di notte, ricorrendo a grandi quantità di caffè per non cedere al sonno. Ha acquistato una statuetta di gesso di Napoleone a cui ha apposto la scritta «quel che egli ha iniziato con la spada, io compirò con la penna». In vent’anni scrive una novantina tra romanzi e racconti riuniti sotto il titolo di «Comédie Humaine», in cui attraverso duemila personaggi rappresenta la Francia della Restaurazione in tutte le classi sociali. Nel 1932 riceve la lettera di un’ammiratrice che si firma «l’Etrangère» dalla Russia. Si chiama Eva Hanska, ha trent’anni, è sposata con un barone che ha venticinque anni più di lei ed è proprietario di estesi possedimenti in Ucraina, fattorie, foreste, migliaia di servi della gleba e un magnifico castello. Balzac sente che il sogno inseguito per tutta la vita sta per avverarsi, ma deve aspettare dieci anni prima che il marito, di salute malferma, muoia. Finalmente, a cinquant’anni, la sposa, ma ormai è gravemente malato. Ha dolori al cuore, ai polmoni, una gamba in cancrena. Muore a cinquantun anni, il corpo gonfio per l’idropisia, e viene sepolto al Père Lachaise, il cimitero sulla collina da cui Rastignac, il suo celebre personaggio, lanciava la sfida a Parigi: «A noi due». Massimo Romano
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