Carceri affollate cosa si può fare

Carcere solo per i condannati in via definitiva, quando c’è necessità di ricorrere alla più grave forma detentiva. Questa la novità principale introdotta dal decreto carceri deciso dal governo Letta.

Un provvedimento che da tempo era auspicato da più parti, anche dalla Corte europea dei diritti umani, che ha dato all’Italia la scadenza di maggio 2014 come termine ultimo per assicurare condizioni dignitose ai detenuti. «Entro il 2016, nelle carceri italiane, dovrebbero esserci 10 mila posti letto in più, 5 mila dei quali realizzati entro maggio 2014», ha commentato il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri.

Al passaggio in giudicato della sentenza, nel caso di pena non superiore ai due anni, il pubblico ministero ne sospenderà l’esecuzione con possibilità di chiedere, dalla libertà, una misura alternativa al carcere: a concederla sarà eventualmente il tribunale di sorveglianza. Per gli autori di gravi reati o di soggetti pericolosi, o sottoposti a custodia cautelare in carcere, questa possibilità non ci sarà: resteranno in carcere fino a quando il tribunale di sorveglianza non ritenga possano uscire in misura alternativa.

Viene ampliata la possibilità per il giudice di ricorrere, al momento della condanna, al lavoro di pubblica utilità: questa misura, alternativa al carcere, prevista fino a oggi per i soli delitti meno gravi in materia di droga, potrà essere disposta per tutti i reati commessi da alcolisti e tossicodipendenti, salvo che si tratti delle violazioni più gravi della legge penale.

Nella duplice prospettiva di ridurre i flussi in entrata, ma anche di incrementare le possibilità di uscita dal carcere, si collocano infine le modifiche che prevedono l’estensione di alcune misure alternative, come la detenzione domiciliare, per determinate categorie di soggetti, in passato esclusi, come i recidivi per piccoli reati. Per disinnescare le tensioni che, specie nel periodo estivo, possono più facilmente deflagrare sia tra i detenuti che nei confronti del personale penitenziario, il decreto estende la possibilità di accesso ai permessi premio per i soggetti recidivi.

Ma sul decreto ci sono molte polemiche. «Per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario bisogna costruire nuove strutture e rimandare i detenuti stranieri nei loro Paesi d’origine, non far uscire i delinquenti di galera», ha attaccato il vicepresidente dei deputati della Lega Nord alla Camera, Matteo Bragantin. Mentre l’ex ministro della Difesa, Ignazio La Russa, ha parlato di «un’operazione culturale che, con la strumentale utilizzazione dell’affollamento, rimette in circolazione migliaia di delinquenti».

Perplessi anche i sindacati di categoria: sia l’Uilpa penitenziari sia l’Osapp apprezzano lo sforzo del ministro e i principi ispiratori del provvedimento, ma senza risolvere l’emergenza carceri. E l’Associazione nazionale dei funzionari di polizia, stimando che ai domiciliari possano finire complessivamente 17 mila persone, paventa l’aggravio di lavoro per forze dell’ordine già largamente sotto organico.

Ma nell’immeditato si poteva davvero fare di più? E quali altri interventi saranno necessari in futuro? L’abbiamo chiesto al professor Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Piacenza.

Cosa pensa di questo decreto? Va nella direzione giusta?

Si tratta di un provvedimento-tampone che può essere ancora foriero di modifiche. Io, infatti, in questi giorni sono a Roma perché faccio parte della Commissione per la riforma del sistema sanzionatorio che il ministro Cancellieri ha voluto per portare a termine una completa revisione delle pene. Dovremo concludere il lavoro entro fine novembre. A quel punto ci saranno successivi interventi legislativi. Se i lavori andranno nella direzione giusta lo capiremo tra qualche settimana.

In molte carceri non ci sono da anni ristrutturazioni e manca una corretta manutenzione perché da tempo non ci sono finanziamenti. Come mai si è arrivati a questo punto? E qual è la considerazione del carcere oggi nella politica e nella società?

Bisogna far capire all’opinione pubblica che lavorare per il carcere e lavorare per il recupero di chi ha infranto la legge significa anche fare prevenzione. È dimostrato da ricerche recenti che se si lavora sulla prevenzione si diminuisce la recidiva dei reati e aumentano i livelli di consenso sulle norme all’interno della stessa società. Non bisogna insistere sul timore della pena, ma rafforzare l’autorevolezza della legge. Vedere che una persona che ha sbagliato riconosce il suo errore e cambia vita, insomma, è il miglior deterrente. Purtroppo in Italia c’è troppo spesso la convinzione che l’inasprimento della pena detentiva in carcere sia un mezzo per vincere le elezioni, perché contribuisce a dare un generale senso di sicurezza. Ma non è così. Si può fare molto di più quando si aiuta chi ha sbagliato a capire quello che ha fatto.

Ad esempio?

Ad esempio con le misure di giustizia riparativa o mediazione penale: il giudice, che non può dare l’assoluzione, sospende il processo e invita le parti a rielaborare insieme attraverso un ufficio di mediazione quanto è accaduto. Parlare insieme guardandosi negli occhi, vedere il dolore causato a chi ha subito un danno, incoraggiare chi ha sbagliato a farsi carico delle proprie responsabilità è utile sia per la parte offesa, che si sente soddisfatta, sia per il colpevole per evitare recidive.

In concreto, dunque, quali altre misure si potrebbero attuare?

Dal 2006 al 2008 era stata istituita proprio per questo motivo la Commissione Pisapia. Cercare delle alternative al carcere. E le conclusioni a cui era arrivata erano davvero interessanti. Questi luoghi, infatti, non devono diventare la discarica della società. La reclusione in un penitenziario non può essere l’unica pena utilizzata dal diritto penale. Innanzitutto si possono aumentare le pene pecuniarie, che in alcuni casi, come per i crimini meno appariscenti, possono avere anche un valore maggiore. È chiaro, però, che per garantire l’uguaglianza un ufficio deve stabilire l’ammontare della cifra secondo il carico familiare, il patrimonio e il reddito, come avviene in Germania, dove più del 70 per cento delle pene è di natura pecuniaria. Deve essere data la possibilità a chi è andato in carcere di avere un percorso di inserimento nella società attraverso un uso più ampio delle misure di semilibertà e di libertà condizionale.

E poi?

È importante garantire il recupero di chi ha commesso un reato anche attraverso una “rieducazione”, assicurandogli corsi di formazione che possano aiutarlo ad apprendere un mestiere, per esempio, così da avere fonti di reddito alternative. Affrontare il problema del reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute ed ex detenute, con una serietà decisamente maggiore è fondamentale. E per questo è necessario un lavoro di rete, tra enti locali, amministrazione penitenziaria, enti del privato sociale e del no profit, a cui non può e non deve sottrarsi nemmeno l’imprenditoria. Come già avviene a Padova, Pescara, Bollate e Volterra. Altrimenti è chiaro, una volta fuori, per guadagnare qualcosa, si ricasca nel reato. È per questo, infatti, che in passato l’indulto non ha funzionato: è mancato il reinserimento.

Cristina Conti



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