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La sedia vuota parlaLa sedia vuota al centro e in prima fila nell’Aula Paolo VI sabato 23 giugno al Concerto per l’Anno della Fede: un evento significativo quanto le parole, i gesti, gli atti di papa Francesco in questi primi cento giorni da quando, chiamato «dai confini del mondo», è Vescovo di Roma e come tale Pontefice della Chiesa universale. La sua assenza alla manifestazione, ambita da ecclesiastici e laici, nobili e plebei, suore e attrici, dignitari in abito scuro e comprimari in jeans, ha fatto rumore. Il Papa è rimasto nella sua stanza, a Santa Marta, a continuare il suo lavoro. «Per improrogabili impegni», ha comunicato al grande e scelto pubblico in attesa l’arcivescovo Rino Fisichella, presidente del Pontificio Consiglio per la nuova evangelizzazione. Molti gli interrogativi. Forse il Papa si è sentito poco bene? No, non è questo. Francesco ha passato le giornate con i nunzi apostolici, ossia gli ambasciatori e pro-consoli della Chiesa cattolica nelle varie parti del mondo. A loro ha raccomandato in particolare che nell’impegno di individuare e candidare i vescovi che devono essere nominati da Roma si attengano a particolari criteri. Né mondanità, né carrierismo. Se i nunzi devono essere intermediari non mediatori, i vescovi non sono principi rinascimentali. E se Francesco non va al concerto è perché non vuole passare per principe. Che l’abbia usata o no per se stesso questa figura a proposito della rinuncia al concerto, è sicuro che risponde allo “stile Francesco”. «Lo stile di Francesco è anche uno stile di governo», ha scritto Alberto Melloni, storico, direttore del Centro Giovanni XXIII di Bologna. E’ lo stile emerso in questi cento giorni, posti sotto il segno del dialogo, della predicazione, della catechesi, degli esercizi spirituali ignaziani, della povertà, dell’attenzione alle periferie, della semplicità, della scelta a trascurare i segni esterni del potere, del lusso, di alcune insegne che parlano di Corte, di Corte pontificia, che non può somigliare a nessuna Corte mondana, e se talvolta ha assunto questa caratteristica, adesso è ora di riformarla, di purificarla. E questo gesto di lasciare la poltrona vuota è un simbolo: prelude a nomine che appaiono sempre più vicine. Egli evangelizza. Insegna. Stimola. Esorta. E invita all’unità della Chiesa nella diversità e a rifuggire dalle chiacchiere, dal mormorio. Unità, diversità, ma anche Chiesa aperta. Non a caso la settimana si conclude con un monito: «Il cristiano non può essere antisemita». Lo assicura al Comitato internazionale ebraico interreligioso, mentre col premio Nobel per la Pace Perez Esquivel condivide la difesa dei popoli indigeni dell’Argentina e del Sud America. Siamo a un mese esatto dal viaggio apostolico in Brasile per la Giornata mondiale della gioventù, a Rio de Janeiro, la capitale affettiva di una nazione “emergente”, come autorizza l’acronimo «Brics» con Russia, India, Cina, Sud Africa. E’ catalogata come la settima potenza mondiale. Ma dietro la facciata nasconde grande povertà, specie nel Nordest, con altissimo tasso di disoccupazione (13 milioni) e dove le favelas non sono state mai redente. Un Paese, insomma, dove il pallone, il carnevale e la samba non bastano più e dove il Papa sud americano porterà messaggi di speranza e di pace, si chinerà a baciare i poveri e gli oppressi dalla malattia e dalla fame. Sarà in sintonia con loro, respingendo «l’idolatria della ricchezza». Una parentesi per riaffermare i valori cattolici di quel popolo. Come ha fatto qui quando, spenta l’eco del concerto, puntualmente a mezzogiorno della domenica compare alla finestra di quell’appartamento che non abita per recitare l’Angelus, con la grande folla che ora non teme il caldo, come non ha temuto la pioggia. Nella piazza ci sono tanti giovani e a loro chiede di «andare controcorrente» per amore della verità. «Quanti uomini retti preferiscono andare controcorrente, pur di non rinnegare la voce della coscienza, la voce della verità». «A voi giovani dico: non abbiate paura di andare controcorrente, quando ci vogliono rubare la speranza, quando ci propongono questi valori che sono avariati, valori come il pasto andato a male e quando un pasto è andato a male, ci fa male; questi valori ci fanno male. Dobbiamo andare controcorrente! E voi giovani, siate i primi: Andate controcorrente e abbiate questa fierezza di andare proprio controcorrente. Avanti, siate coraggiosi e andate controcorrente! E siate fieri di farlo». Anche tempo di martiri, il nostro. «Tanti, tanti (più che nei primi secoli) tanti martiri, che danno la propria vita per Cristo, che sono portati alla morte per non rinnegare Gesù Cristo. Questa è la nostra Chiesa. Oggi abbiamo più martiri che nei primi secoli. Ma c’è anche il martirio quotidiano, che non comporta la morte, ma anch’esso è un "perdere la vita" per Cristo, compiendo il proprio dovere con amore, secondo la logica di Gesù, la logica del dono, del sacrificio. Pensiamo: quanti papà e mamme ogni giorno mettono in pratica la loro fede offrendo concretamente la propria vita per il bene della famiglia. Pensiamo a questi. Quanti sacerdoti, frati, suore svolgono con generosità il loro servizio per il regno di Dio. Quanti giovani rinunciano ai propri interessi per dedicarsi ai bambini, ai disabili, agli anziani… Anche questi sono martiri. Martiri quotidiani, martiri della quotidianità». Dai giovani ai bambini. Va ad incontrarli alla Stazione di San Pietro. Vengono da Milano, Bologna, e Firenze, con un treno organizzato proprio per loro. Sono 250, ospitati in casa-famiglia, molti orfani. Lo chiamano, il Papa parla con loro. Avete paura del caldo? Per venire da te, no. Uno gli dice: «Sarò il tuo successore». Divisioni nella Chiesa? No. Spiega Francesco: «C’è una varietà, una diversità di compiti e di funzioni; non c’è la piatta uniformità, ma la ricchezza dei doni che distribuisce lo Spirito Santo. Però c’è la comunione e l’unità: tutti sono in relazione gli uni con gli altri e tutti concorrono a formare un unico corpo vitale, profondamente legato a Cristo. Ricordiamolo bene: essere parte della Chiesa vuol dire essere uniti a Cristo e ricevere da Lui la vita divina che ci fa vivere come cristiani, vuol dire rimanere uniti al Papa e ai vescovi che sono strumenti di unità e di comunione, e vuol dire anche imparare a superare personalismi e divisioni, a comprendersi maggiormente, ad armonizzare le varietà e le ricchezze di ciascuno; in una parola a voler più bene a Dio e alle persone che ci sono accanto, in famiglia, in parrocchia, nelle associazioni. Corpo e membra per vivere devono essere uniti. L’unità è superiore ai conflitti, sempre. I conflitti se non si sciolgono bene, ci separano tra di noi, ci separano da Dio. Il conflitto può aiutarci a crescere, ma anche può dividerci. Non andiamo sulla strada delle divisioni, delle lotte fra noi. Tutti uniti, tutti uniti con le nostre differenze, ma uniti, sempre: questa è la strada di Gesù. L'unità è superiore ai conflitti. L’unità è una grazia che dobbiamo chiedere al Signore perché ci liberi dalle tentazioni della divisione, delle lotte tra noi, degli egoismi, delle chiacchiere. «Quanto male fanno le chiacchiere, quanto male. Mai chiacchierare degli altri, mai. Quanto danno arrecano alla Chiesa le divisioni tra i cristiani, l’essere di parte, gli interessi meschini. Le divisioni tra noi, ma anche le divisioni fra le comunità: cristiani evangelici, cristiani ortodossi, cristiani cattolici, ma perché divisi? Dobbiamo cercare di portare l'unità. «Vi racconto una cosa: oggi, prima di uscire da casa, sono stato quaranta minuti, più o meno, mezz'ora, con un pastore evangelico e abbiamo pregato insieme, e cercato l'unità. Ma dobbiamo pregare fra noi cattolici e anche con gli altri cristiani, pregare perché il Signore ci doni l'unità, l'unità fra noi. Ma come avremo l'unità fra i cristiani se non siamo capaci di averla tra noi cattolici? Di averla nella famiglia? Quante famiglie lottano e si dividono. Cercate l'unità, l'unità che fa la Chiesa. L'unità viene da Gesù Cristo. Lui ci invia lo Spirito Santo per fare l'unità. «La Chiesa non è un’associazione assistenziale, culturale o politica, ma è un corpo vivente, che cammina e agisce nella storia. E questo corpo ha un capo, Gesù, che lo guida, lo nutre e lo sorregge. Questo è un punto che vorrei sottolineare: se si separa il capo dal resto del corpo, l’intera persona non può sopravvivere. Così è nella Chiesa: dobbiamo rimanere legati in modo sempre più intenso a Gesù. Ma non solo questo: come in un corpo è importante che passi la linfa vitale perché viva, così dobbiamo permettere che Gesù operi in noi, che la sua Parola ci guidi, che la sua presenza eucaristica ci nutra, ci animi, che il suo amore dia forza al nostro amare il prossimo. E questo sempre». Antonio Sassone
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