![]() Accesso utente |
Uomo e medico in prima lineaLe sue giornate sconfinano nelle notti. Le notti nelle giornate. Sempre in prima linea. Con una continuità che ha cancellato il tempo cronologico, sostituito da quello di una donazione totale di se stesso, senza intervalli e senza riposi. Verso quell’umanità nella quale incontra ogni giorno il volto del Cristo sofferente. Quel Dio che, giovane studente liceale, aveva incontrato nel reparto di un ospedale torinese, dove assisteva il proprio padre. Nel silenzio della notte, interrotto soltanto dal respiro ansante e faticoso dei tracheomizzati. Questo “diario africano” che mette in discussione le nostre certezze, ancor più i nostri privilegi, è nato in quel reparto. Anche se lui, fratel Beppe Gaido, non poteva allora immaginarlo. Fu quell’incontro giovanile con un’umanità dolorante a decidere, alcuni anni dopo, la sua entrata nella grande famiglia del Cottolengo. A fargli scegliere di diventare infermiere per stare accanto agli ammalati giorno e notte. Quando poi, laureatosi in medicina, venne inviato a Chaaria, in Kenya, fu ancora quell’incontro a fare da filo conduttore, a sorreggerlo, a dare un significato alle sue giornate estreme. A dargli il coraggio di ricominciare dopo ogni sconfitta, anche quando tutto pare perso. Ad alleviare la nostalgia per il mondo e gli affetti lasciati alle spalle, la solitudine di certi momenti, «un dolore acuto che diventa anche fisico». Ad aiutarlo a guardare sempre avanti per soccorrere chi soffre e costruire un futuro. Già, l’umanità. Quella che spesso non è registrata in nessuna anagrafe terrena, soltanto in quella del Figlio del Padre, venuto a vivere nelle strade del mondo con le donne e gli uomini di ogni tempo. Per condividere con loro i passi difficili di destini dove il mistero del dolore non ha riposte, chiede soltanto amore. E ancora amore. Quella che aspettava fratel Beppe, nel piccolo dispensario che sarebbe divenuto un ospedale in continua espansione e crescita, era un’immagine sconvolgente di questa umanità. Nelle sue povertà, nelle fatiche quotidiane, nella solitudine di un'emarginazione che annulla l’identità stessa dell’essere umano. Vite distrutte prima ancora di iniziare il loro percorso, vite spezzate per assenza delle cure più elementari, del diritto alla salute, negato a milioni di persone. Vittime di ingiustizie e diseguaglianze, incatenate a schiavitù che annientano. Esistenze schiacciate e dimenticate nei sotterranei della storia. Chi cammina sui marciapiedi del mondo non ha tempo per ascoltare i loro lamenti e le loro richieste di aiuto, distratto dalla luce dei palcoscenici che premiano la visibilità. Drogato dall’indifferenza che risucchia nei suoi egoismi ed individualismi . Donne, bambini, uomini che hanno affollato, sempre più numerosi, l’orizzonte quotidiano del giovane medico piemontese, atterrato in quel pezzo d’Africa dove i villaggi sono ostaggio delle aggressioni sempre in agguato, delle violenze che arrivano dall’esterno e di quelle familiari, delle aggressioni che corredano le giornate come un sudario, della siccità che semina il deserto. Dove si muore come mosche per le malattie, la malaria in testa, il flagello dell’Aids che continua ad espandersi, la denutrizione endemica, le epidemie, le carestie. Dove si muore per cause banali, un’infezione, l’ignoranza di norme sanitarie elementari. Si muore in solitudine e per solitudine. Si muore di parto, mentre si moltiplicano i bambini orfani che si portano addosso una morte annunciata. Come Stella, la dolcissima bimba che chiama fratel Beppe “baba”, in kiswahili papà, sieropositiva, sempre malata e sempre sorridente, la mascotte dell’ospedale. Sua madre è morta quando lei aveva due anni, il padre poco dopo, i due fratellini annientati dalla anemia e dalla malaria. Nonostante le cure anche lei non ce la fa a sopravvivere. L’Aids se l’è portata via. E’ stata questa umanità ferita che ha messo le ali ai piedi di fratel Beppe. Sono i loro volti, le loro piaghe, i corpi consunti, ridotti «a un fagotto rosso di sangue» come quello della bimba Kawira, che in kimeru significa «grande lavoratrice», ferita in ogni parte del corpo, il cranio sfondato con il machete, in un raptus di follia, dall’uomo nella cui casa lavava, cucinava, si occupava del figlio piccolo. Salvata dopo ore di interventi chirurgici, non ha voluto denunciare il suo carnefice. Sono Kendi, ragazzina bellissima, «gli occhi innocenti che piangevano senza lacrime», venuta a recuperare da sola, dopo ore di viaggio a piedi nella savana, il corpo del padre, morto in ospedale senza che nessuno fosse mai venuto a trovarlo. Sono la folla di donne dai nomi leggeri e dai destini pesanti, lacrime, umiliazioni, sconfitte, violenze subite: Rosemary, Florence, Eunice, Susan, Monica, Beatrix, Makena , Kanana, Agnes, Charity, che con tenacia e determinazione, con dignità, portano sulle loro spalle la vita delle famiglie e dei villaggi. Sono queste donne che fanno scrivere a fratel Beppe: «La donna africana è un monumento di pazienza, laboriosità, fedeltà di cui non si può non essere profondamente impressionati. E’ il pilastro della società. Ne ho conosciute tante. Tutte diverse. Tutte forti e fragili allo stesso tempo. Sono il futuro di questa terra che rinasce ogni volta grazie al loro sacrificio e alla straordinaria forza che hanno di sopportare il dolore». Intanto Chaaria, negli anni, diventa una cittadella della speranza, con migliaia di ricoverati e di pazienti curati negli ambulatori in continuo aumento. E grazie alla dedizione eroica degli infermieri e dei medici, dei volontari che arrivano da tutte le parti del mondo. Di suor Lucy, suor Oliva e suor Florence. Della grande “famiglia” dei “fratelli”: Maurizio e Lorenzo, Roberto, Giancarlo, Simon, Albert, Robert. Sono presenze preziose e indispensabili nell’impegno quotidiano per salvare vite umane, anche nelle situazioni più estreme. La sala operatoria sempre in funzione, ventiquattro ore su ventiquattro, le gravi emergenze nei reparti all’ordine del giorno. Poche le ore di sonno, troppo poche per il medico che non fa in tempo ad addormentarsi, dopo una lunga giornata al limite delle forze e c’è già l’infermiera di turno che bussa per una partoriente giunta in fin di vita, il marito l’ha portata in bicicletta e poi su una carriola. Bisogna correre subito, intervenire con una trasfusione di sangue. Grazie a Dio è salva per un pelo: «Gli occhi si stavano chiudendo dalla stanchezza, ma ero felicissimo… a quel punto avrei potuto concedermi una piccola pausa e riposarmi un po’, prima di riprendere la nuova giornata di lavoro». Invece un’altra chiamata urgente, un bimbo appena nato che non riesce a respirare. Per un’ora si è tentato di rianimarlo, alla fine un vagito vigoroso, un altro salvataggio andato bene. E’ l’ora della colazione, «nessuno me la toglie più», sospira il medico. Invece arrivano due cesarei urgenti, di nuovo in sala operatoria fino all’ora del pranzo. Un boccone al volo e poi la ressa delle persone venute da lontano per essere visitate nell’ambulatorio, furiose perché in attesa dal mattino. E la sera, tre donne da assistere che stanno per partorire contemporaneamente, tutte con complicazioni. Una scelta difficile da fare che buca l’anima: «A chi fare per prima il cesareo?». Ma come è possibile, si chiede chi legge queste pagine, sopportare ritmi che sono una normalità ? La risposta nelle pieghe di questa cronaca dell’impossibile. In quel legame permanente con il cielo che alimenta forze umanamente non immaginabili. Sostiene il corpo e l’anima con un vigore che arriva dalla passione per l’altro e per questa terra che traspira da ogni poro sofferenza, abbandono, solitudine. Ma è anche una terra dai colori stupendi che emozionano, così estremi nei loro contrasti. Dai profumi e aromi intensi che inebriano, le jacarande in fiore con «le chiome viola che spiccano prepotentemente nel verde», lo splendore dei bananeti, le migliaia di uccelli variopinti, i tessitori sgargianti nelle loro piume gialle e nere che si preparano il nido. La musica dei torrenti e della cascata di Mbajone, maestosa, imponente, un angolo di paradiso. Il cielo sconfinato di un «blu che toglie il fiato», durante la notte così bello e palpitante di stelle «che sembra disegnato», mentre all’alba le vibrazioni rosa sfumano nel grigio chiaro. Sotto questo cielo che ricorda la felicità sconfinata di Dio quando l’ha creato, in questa natura che parla di Lui in ogni esplosione di bellezza, nelle giornate che mangiano l’anima e il corpo, Beppe Gaido è cresciuto in umanità e interiorità. In professionalità. Uomo fra gli uomini, fughe in cappella per ricuperare la forza di andare avanti e di non lasciarsi sommergere dall’onda montante del dolore, ci fa rivivere in nelle pagine del suo Diario, dove ogni parola è scritta in ginocchio, la sacralità dell’esistere. La sua non vuol essere un’opera letteraria, ma una testimonianza in diretta, fatta di parole di carne e di sangue. Arriva da quell’oceano di vite umane, di bambini salvati alla vita, di madri e di padri, di giovani e di anziani, che sono diventati tutta la sua famiglia. La sua casa. Di loro ci parla con la tenerezza di una paternità struggente, di una familiarità d’elezione, di una condivisione che mette i piedi e le mani sulle orme di quel Cristo che stava sulle strade di Galilea con la gente, nel dolore e nella gioia. Stava “con“. Questa piccola preposizione ha cambiato la storia del mondo, quando il Figlio di Dio più che parlare, ha iniziato a vivere insieme con le persone che incontrava, assumendo su di sé e in sé le loro fatiche e attese. Prendendo la loro diversità sulla sua pelle. Quando si è impastato con la storia del mondo fino al sacrificio supremo in un atto d’amore totale che è il più grande di tutti: dare la vita per i propri fratelli , come scrive l’apostolo Giovanni. Non ci parla molto di quel Dio e di quel Figlio, Fratel Beppe. Ce ne parlano le sue azioni, i volti e le storie delle persone alle quali si dona in ogni momento della giornata e della notte, ventiquattro ore su ventiquattro. Oggi abbiamo bisogno, più che di parole, di testimoni credibili. E’ attraverso di essi che la Chiesa può ricuperare quella profezia di cui essa stessa, insieme con la comunità dei credenti, ha urgente bisogno per una evangelizzazione che riporti a riscoprire la novità rivoluzionaria del cristianesimo, la sua universalità e la sua bellezza. A noi che ci proclamiamo cristiani «un giorno verrà chiesto non se siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili», ha scritto il vescovo don Tonino Bello, che continua dal cielo che abita a parlarci in libertà e verità con la sua profetica vita. E Beppe Gaido, nelle ultime pagine del suo Diario, voltandosi indietro a considerare il cammino percorso in tredici anni confessa: «…Ora è come se il tempo mi avesse levigato il cuore e seccato le corde vocali. Non ho più voglia di parlare, di esprimere giudizi , proporre soluzioni. Adesso credo che l’unica risposta al male del mondo sia il silenzio, accompagnato dal nostro impegno serio e costante nel servizio di chi soffre. Tutti oggi parlano. Serve solo a calmare i sensi ci colpa che il silenzio genera nella nostra coscienza. Sento fortemente che il centro di gravità a cui il Signore mi sta attirando, giorno dopo giorno, è la consapevolezza che nel povero che servo c’è Gesù». E poi, con uno sguardo riconoscente al Santo che l’ha attirato nella sua grande famiglia: «In questo mi aiuta molto la spiritualità del Cottolengo, quando mi incita a “non farmi chiamare due volte, ma a volare al letto dell’ammalato come sulle ali della carità”. Mi ricorda che i malati sono come “la pupilla dell’occhio della nostra vita quotidiana”. Sono la prova del nostro cristianesimo». E’ quanto avverto anch’io, non solo attraverso queste stupende pagine che hanno saputo trovare nel buio la luce della bellezza del vivere e dell’amare. Ma per la strada che ho fatto insieme con fratel Beppe, da quando è venuto a trovarmi nella stanza sulla piazza per pregare nella mia piccola chiesa domestica al centro della quale c’è un letto che accoglie un “Cristo velato”. Quel letto, per chi arriva e per chi gli vive accanto, è diventato un altare davanti al quale ogni giorno ripetiamo: “Mistero della fede”. Tre parole che anticipano l’eternità e danno alla vita una pienezza unica e meravigliosa. Una luce che riesce a mettere in fuga le tenebre. Mariapia Bonanate
|